sabato 25 aprile 2015

Lo sguardo di Fillide: la "Santa Caterina" di Caravaggio




Una delle prime cose che impressionano, quando si vede la "Santa Caterina" di Caravaggio, ora alla Fondazione Thyssen di Madrid, è lo sguardo della Santa.


Una grande tela (ben 173x133 cm): la Santa Caterina è inginocchiata su un cuscino rosso damascato e vestita con un abito di velluto nero e un  mantello di broccato blu, ravvivati da disegni d'oro e d'argento. 
Accanto, domina la grande ruota uncinata, strumento del suo martirio.

All'epoca del dipinto, Caravaggio (1571-1610) ha lasciato da poco quell'ambiente di malaffare, di piccoli commerci, di ragazzotti arroganti e pronti a usare la spada, in cui si è ritrovato, o, forse, ha scelto di vivere fin dal suo arrivo a Roma, poco più che ventenne.
Per mantenersi, ha cercato finora di adattarsi, accettando l'ospitalità di mecenati poco generosi, o lavorando per botteghe, di cui non condivide fino in fondo le scelte, ma ha sempre più voglia di seguire le sue idee e mettere alla prova il suo modo di fare pittura.
Ora, forse, ha trovato la sua occasione. 
Il potente cardinale Francesco Maria Del Monte gli ha comprato un dipinto con "I bari" (ora nel Museo di Fort Worth): gli piace il suo modo di dipingere e, probabilmente, gli piace anche quel giovane pittore insolente e povero in canna.
Da subito, gli offre ospitalità nel palazzo dove abita, di proprietà della famiglia Medici (palazzo Madama, ora sede del Senato) e lo "iscrive a rolo", cioè lo prende al suo servizio con vitto, alloggio e un salario mensile.
Il cardinale è un personaggi di spicco della Curia, rappresentante a Roma del Granduca di Toscana, accorto diplomatico, appassionato di musica, di teatro e d'arte e, tramite il fratello matematico e astronomo, in contatto anche con uno scienziato del calibro di Galileo Galilei.
Accettando la sua protezione, Caravaggio è convinto di potersi lasciare alle spalle le difficoltà del primo periodo romano e dei giorni, in cui "a mal termine si era ridotto, senza denari e pessimamente vestito", anche se non smette- da attaccabrighe qual è- di lasciarsi coinvolgere in liti e risse.
Quelli che passa al servizio di Francesco Maria Del Monte, dal 1597 al 1600, sono anni produttivi, in cui dipinge, senza risparmiarsi, tele, sacre e profane, che rimarranno nelle collezioni del cardinale e che  figureranno negli inventari redatti dopo la sua morte. 
La "Santa Caterina" è una di queste: un dipinto  eseguito finalmente per un committente che concorda con le sue idee e dove può sperimentare liberamente il suo nuovo modo di fare pittura.

Il soggetto, forse suggerito dallo stesso cardinale, all'epoca è assai diffuso, grazie alla notorietà della storia avventurosa e truculenta di santa Caterina d'Alessandria.
Bellissima figlia di un re egiziano, rifiuta, per la sua fede cristiana, di sposare l'imperatore Massenzio ed è costretta a difendersi, disputando con cinquanta dotti filosofi e uomini di scienza, ma riesce a convertili tutti. 
Imprigionata e lasciata morire di fame, viene nutrita miracolosamente da una colomba. Poi, condannata al martirio della, ruota si salva per intervento divino e, alla fine muore decapitata.
Da questo racconto, intricato e fantasioso, Caravaggio, in accordo con gli intenti del cardinale e della sua cerchia, cerca di recuperare l'essenzialità e la verità.
Nel suo dipinto, nessun elemento superfluo, nessun orpello, ma una pittura "al naturale", fatta di contrasti di luce e d'ombra e, come afferma uno dei suoi biografi, Giovanni Antonio Bellori, completamente rinnovata, tanto da essere "non, come prima, dolce e con poche tinte, ma tutta risentita di oscuri gagliardi".
Dal fondo nero emerge, in primo piano, la figura della Santa. 
La luce, insieme simbolica e reale, irrompe dalla destra, modella le forme e fa risaltare il candore della camicia ricamata, il broccato dell'abito o il sontuoso cuscino che alludono alle sue origini regali. 
Ancora la luce rivela, nella loro crudezza, gli strumenti del martirio, che diventano non più simboli ma oggetti reali, come la ruota dalle punte acuminate, dove appaiono tutte le venature del legno grezzo; si riflette, poi, sulla sottile aureola che cinge la testa della Santa e si sofferma sul bagliore della spada, o sulla palma del martirio, che, ormai secca, giace, a terra.

Qui non ci sono occhi levati al cielo o espressioni estatiche, solo uno sguardo acuto e concentrato che si posa su di noi: lo sguardo di una donna vera.
È così, perché il volto dall'ovale perfetto e i capelli arricciati sono quelli di Fillide Melandroni, una giovane prostituta che, di tanto in tanto, lavora come modella. 
Arrivata a Roma da Siena negli stessi anni di Caravaggio e più giovane di lui di una decina d'anni, all'epoca della tela, ha, più o meno, sedici anni (qui). 
Costretta dalla misera, esercita "il mestiere" da quando era  poco più di una bambina e solo recentemente è riuscita a trasferirsi dalla sordida locanda in cui viveva a un appartamento, dove tiene a servizio una domestica, grazie alla protezione di Ranuccio Tomassoni, uomo d'arme rissoso e violento. 
È lui, forse, che ha fatto da tramite tra Fillide e Caravaggio:  Roma è grande, ma nel rione di Campo Marzio, dove vivono tra vicoli umidi, osterie malfamate e palazzi signorili, finiscono per conoscersi tutti.
Caravaggio ha frequentato quel mondo e continuerà a frequentarlo, fino a quando, in una rissa, ucciderà proprio Tomassoni e sarà costretto a fuggire da Roma.

Per la sua "Santa Caterina" ha voluto dunque lo sguardo, a metà tra consapevolezza e paura, di una ragazzina abituata a subire oltraggi e prepotenze e che, come lui, conosce bene la difficoltà del vivere.
Grazie a Fillide, la Santa diventa, sotto il suo pennello, una giovane pallida e sbigottita, rivestita di lussuosi abiti troppo grandi per lei, che stringe, con dolcezza, tra le mani, la lama della spada arrossata del suo sangue. 
E le parole dell'antica leggenda riacquistano, così, intensità e umana verità.







La vita di Fillide Melandroni e l'ambiente in cui vive Caravaggio è stato ricostruito, su base documentaria, nel bel libro di Riccardo Bassani e Fiora Bellini, Caravaggio assassino. La vita di un Valenthuono fazioso nella Roma della Controriforma, ed. Donzelli 1994.


sabato 18 aprile 2015

Tra terra e mare : i “Porti di Francia” di Claude-Joseph Vernet




Ci sono dei dipinti che fanno viaggiare nel tempo e nello spazio: quadri, come questi, ad esempio, capaci di trasportarci, tra terra e mare, nella Francia di metà Settecento. 

Una grande tela con il "Porto di Antibes" di Claude-Joseph Vernet (1714-1789), datata 1756 e attualmente conservata a Parigi al Musée National de la Marine:


Da una terrazza ombreggiata di palme, due persone guardano il mare, riparandosi con un parasole. 
In basso, lo scorcio di una campagna con aranceti e alberi da frutto, mentre a sinistra un convoglio militare rientra nella sua guarnigione. 
All'orizzonte si staglia il profilo di una città affacciata su un ampio golfo.

In un altro dipinto con il "Porto di Bayonne", anch'esso conservato a Parigi al Musée de la Marinerie, Vernet raffigura, in primo piano, contadini occupati nel lavoro dei campi e alcuni passanti, visti in controluce, che si fermano a guardare il porto alla confluenza di due fiumi, mentre il tramonto tinge di rosa gli edifici della città in lontananza.



Potrebbero sembrare vedute di fantasia, create per la decorazione di un salotto di qualche palazzo. 
E, invece, no. 
Sono due delle grandi tele- le dimensioni sono sempre di cm 165x263- di una straordinaria serie destinata a rappresentare, più esattamente possibile, l'ubicazione e le caratteristiche di tutti i porti francesi.
Il progetto, voluto dal Marchese di Marigny, influente ministro del re Luigi XV, ha lo scopo di illustrare la prosperità del paese, frutto del buon governo del re, ma anche la potenza marittima della Francia e di contrastare- almeno in pittura- l’immagine dell’Inghilterra come dominatrice dei mari. 
E- si sa- quando c'è di mezzo la "grandeur de la France", non ci sono ostacoli che tengano: l'elenco delle località e l'itinerario sono pronti e i soldi sono già stanziati.
Quanto al pittore, Marigny non ha esitazioni: bisogna scegliere il migliore.
E il migliore, allora, è Claude-Joseph Vernet.  
All'epoca, è appena tornato in Francia dopo aver trascorso ben vent'anni a Roma dove si costruito un'eccellente reputazione di pittore paesaggi e di marine, mescolando rimandi alla tradizione classica di Claude Lorrain con influenze delle vedute contemporanee di Giovan Paolo Panini. 

Il 27 settembre del 1753 il Re gli assegna la commissione.
Vernet inizia, allora, un viaggio che lo porterà a girare tutta la Francia dal Mediterraneo all'Atlantico e che durerà dieci anni.
Dieci lunghi anni, passando da un porto all'altro, osservando, misurando e disegnando nei suoi taccuini tutto quello che vede. 
Senza contare le lunghe giornate in studio per eseguire i dipinti e il tempo per spedirli con ogni cura a Parigi, dove vengono esposti al pubblico nel Salon del Louvre.
Di certo, l'organizzazione non è facile: Vernet si lamenta dei continui spostamenti e delle spese per alloggiare la famiglia che, in genere, lo segue da un porto all'altro.
Come a Bordeaux dove si tratterranno due anni e dove Vernet, per mantenere moglie e figli, dovrà lavorare anche per committenti privati. 
Nella veduta del porto, datata 1759 e ora conservata a Parigi al Musée National de la Marine, sotto il sole ancora basso del primo mattino, raffigura con grande precisione i nuovi edifici che abbelliscono la città e l'elegante terrazza che affaccia sull'oceano:




L'impegno per Vernet è sempre più pressante, ma il progetto è troppo importante per rinunciarvi.
Anno dopo anno, continua a lavorare, spronato dalle frequenti lettere di Marigny che avanza sempre nuove richieste. 

A Marsiglia, le istruzioni specificano che dovrà inserire nel dipinto "edifici commerciali di tutti i tipi e personaggi di tutte le nazioni".
Ed ecco che in questa tela, ora conservata a Parigi al Palais Chaillot, sullo sfondo delle navi che affollano il porto, tra facchini, marinai, dame e gentiluomini eleganti, si inventa- tra il formicolare della folla- un gruppo di uomini con turbanti e abiti "alla turca" per alludere ai commerci con l’Impero ottomano.



Quando, invece, deve raffigurare il porto di Tolone si documenta sulla tecniche di costruzione e di riparazione delle navi, sulla forme  delle imbarcazioni e sull'approvvigionamento delle vettovaglie che Martigny gli ha chiesto espressamente di rappresentare. 
Nella tela, illuminata da una luce chiarissima, ora conservata a Parigi al Musée National de la Marine si spinge fino a definire, a destra, ogni dettaglio del grande veliero che domina la scena. 
Tra la folla che si accalca indaffarata, inserisce anche un piccolo gruppo di galeotti condannati a remare sulle vicine galee, che, sorvegliati a vista, trascinano pesanti catene.




Quando può, come in questa tela del "Porto di Sète" ora al Musée National de la Marine cerca di derogare alle regole e ravviva la visione del porto, visto da lontano, raffigurando una tempesta e le grandi onde che scuotono le navi.



Nel 1763 Vernet consegna a Marigny l'ultimo dipinto della serie, il quindicesimo dei ventiquattro previsti all'origine: le condizioni politiche sono cambiate e il progetto non interessa più.  
A questo punto, può tornare a dipingere per una committenza di amatori entusiasti, con una reputazione accresciuta e con prezzi ben più alti di quelli con cui aveva iniziato.
In dieci anni ha consegnato una serie di dipinti che sono vere e proprie scatole delle meraviglie, dove ognuno può trovare quello che più gli interessa: dalla storia della marineria, a quella del territorio, a quella delle vie dei commerci.
Ma Vernet offre, nelle sue tele, ben più di una mera testimonianza documentaria e, con l'armonia dei suoi colori, la sua capacità di rendere la trasparenza dell'acqua, la luce dorata dei cieli o l'impalpabile delicatezza delle nuvole, riveste le sue rappresentazioni di tutte le qualità della pittura. 






Per chi voglia viaggiare tra i porti di Francia raffigurati da Vernet (in ordine cronologico: Marsiglia, Bandol, Tolone, Antibes, Sète, Bordeaux, Bayonne, La Rochelle, Rochefort, Dieppe) qui può trovare un'amplissima documentazione ed entrare letteralmente dentro ogni quadro per scoprirne tutti i dettagli. 


sabato 11 aprile 2015

La nuda bellezza: “La donna allo specchio” di Christoffer Wilhelm Eckersberg




Un piccolo dipinto (cm 33x26) oggi conservata alla Hirschprung Collection di Copenhagen: una donna, raffigurata di spalle, con i fianchi coperti da un telo bianco, di fronte a uno specchio appeso alla parete:



Tutto qui. 
Eppure questa tela sa incantarci con il fascino di un'immagine che sembrerebbe senza tempo, se non ne conoscessimo la data di esecuzione, il 1841 e il nome dell’autore: il danese Christoffer Wilhelm Eckersberg (1783-1853). 
Quando la dipinge, il pittore è un uomo maturo, al culmine della sua carriera e con un ruolo di caposcuola riconosciuto anche al di fuori della Danimarca.
La sua formazione è avvenuta tutta all'interno della cultura neo-classica. 
Dopo gli studi all'Accademia di Copenhagen, un matrimonio sfortunato lo costringe ad allontanarsi e a viaggiare per l’Europa: durante un lungo soggiorno a Parigi, entra in contatto con Jacques-Louis David, mentre, la successiva permanenza a Roma, gli consente di studiare i monumenti dell’antichità e di iniziare un bel rapporto di amicizia col celebre scultore Bertel Thorvaldsen.
A Roma, come molti altri pittori del Nord, rimane folgorato non solo dai rumori, dai colori, dagli odori, ma, soprattutto, dalla luce.
All'epoca non è raro vederlo lavorare all'aperto, con la sua scatola di colori e la seggiola pieghevole, scandalizzando i passanti e i pittori suoi coetanei: quella di dipingere all'aria aperta è ancora una pratica del tutto inconsueta, ma per Eckersberg diventa un abitudine. 
Tanto che, da allora, la luce assume un ruolo dominante in tutti  suoi dipinti, insieme agli elementi tratti dalla realtà di tutti i giorni.
Ispirarsi sia alla natura che all'antichità classica per trovare la verità”: è la concezione che sta alla base della sua pittura, come delle lezioni che, una volta rientrato in patria, tiene all'Accademia di Copenhagen.  
Saranno proprio quelle lezioni che formeranno un’intera generazione di pittori e che gli daranno la fama di ”padre della pittura danese”.
Unire concezioni classiche e attenzione alla realtà è il principio che intende attuare nei suoi tanti dipinti, dai paesaggi, alle scene di mare, alle nature morte. 
Ed è anche quello che vuole realizzare in questo suo straordinario nudo di donna.

Nessuna traccia di leziosità, nessun travestimento mitologico: una giovane donna, intenta ad acconciarsi i capelli alla moda del tempo, è colta in un momento di intimità, ignara di ogni spettatore, quasi fosse spiata di nascosto e circondata da oggetti che rimandano alla vita quotidiana: l’angolo di un tavolo coperto da un drappo, una scatolina porta-gioielli, uno specchio con una semplice cornice di legno. 
Quasi che una Venere, degna una scultura classica, si fosse calata nella realtà di tutti i giorni, nella stanza di un appartamento borghese, nemmeno tanto lussuoso, trasformandosi in una donna moderna enigmatica e irraggiungibile.
La luce fredda del nord ne rivela le forme con la stessa imparzialità, con cui si posa sui particolari o sulla tinta grigio-verde della parete.
La sobrietà dell’insieme, la nitidezza dei contorni, la freddezza dei colori allontana ogni idea di sensualità e ogni tentazione di erotismo. 
Niente di eccessivo, niente di ostentato.
In questa serena e silenziosa intimità quotidiana sta tutto il fascino del dipinto, capace di restituire, libera da ogni sovrastruttura, un’immagine femminile di pura e nuda bellezza.








Qui e qui si può approfondire la biografie e l'arte di C.W. Eckersberg 


sabato 4 aprile 2015

Vincent Van Gogh, "La Pietà"




L'unica volta, in cui van Gogh dipinge l'immagine di Cristo sceglie la Pietà:



Quando esegue questa tela (70x63cm), ora al Museo Van Gogh di Amsterdam, sta  passando uno dei momenti più drammatici della sua vita, con il  ricovero nella casa di cura per alienati di Saint Remy-en-Provence. 
Lui stesso ha scelto di esservi internato, dopo una serie di violente crisi culminate, ad Arles, qualche mese prima, in un atto di autolesionismo, quando, dopo una furiosa lite con l'amico Gauguin, si è tagliato col rasoio il lobo dell'orecchio sinistro. 
Gauguin è tornato subito a Parigi e Van Gogh è sprofondato nella solitudine e nella depressione.
Anche se, dopo la crisi, si è calmato e ha passato un periodo più tranquillo, sa che i motivi della sua inquietudine non sono venuti meno. Tanto più che una petizione di cittadini di Arles, a  cui quell'artista bizzarro fa solo paura, ne ha chiesto il ricovero coatto in ospedale. 
Dal mese di maggio del 1889 vive in due stanze, una camera e uno studio, all'interno della casa di cura. Nelle giornate più calde esce nel giardino, ma solo se accompagnato e, comunque, non smette mai di lavorare. 
In camera, conserva, tra le cose più care, una serie di litografie dei suoi pittori preferiti. Tra queste c'è una "Pietà", tratta da un dipinto eseguito da Eugène Delacroix nel 1840 per la chiesa parigina di Saint Denis du Sacrement e ora al Museo Nazionale di Oslo. 
Delacroix è un pittore che Van Gogh ama particolarmente per l'uso vibrante dei colori e, soprattutto, come scrive più volte, per "quell'uragano che ha nel cuore" e che riconosce simile al suo. 
Nella sua "Pietà" avverte, poi, una religiosità che condivide a pieno: "Solo Delacroix e Rembrandt hanno dipinto il Cristo cosi come io lo sento":-afferma. 
Un giorno di settembre- come racconta in una lettera al fratello Theo- la litografia cade, insieme ad altri fogli, fra colori della tavolozza e rimane danneggiata.
Questa per lui è l'occasione per copiarla, o, meglio, per darne, su tela, un'interpretazione del tutto personale, trasformando quella litografia in bianco e nero in un dipinto a colori.
Il soggetto lo interessa particolarmente, tanto che ne trarrà non una, ma due copie, questa di Amsterdam e una, più piccola e meno elaborata, ora ai Musei Vaticani (qui). 
In quel periodo- confessa in una lettera al fratello Theo- la devozione, spinta fino al bigottismo, delle suore del vicino monastero lo infastidisce, mentre i suoi pensieri tornano spesso a quella religione austera e solidale che ha praticato da giovane, quando svolgeva la sua attività di predicatore e catechista nel Borinage (ne ho parlato qui)

Basta un confronto col dipinto originale di Delacroix per vedere quanto, nella sua tela, Van Gogh abbia messo di sé e delle sue meditazioni
La composizione è la stessa, anche se in controparte, ma van Gogh, con i suoi colori stridenti, con il giallo acido in contrasto col blu del mantello della Madonna, con  i suoi contorni esasperati e le sue pennellate vorticose, è arrivato a stravolgerla completamente. 
Allo sfondo scuro di Delacroix sostituisce un cielo infocato dal sole al tramonto, mentre nel volto di Cristo, dalle guance scavate, i capelli e la corta barba rossiccia, non è difficile intravedere una somiglianza col suo stesso volto, in un'identificazione basata sul dolore e sulla sofferenza condivisa. 
La tela di Delacroix si conforma alla tradizione e ricorda i modi di pittori precedenti, primo fra tutti Rubens. 
In Van Gogh, invece, c'è la libertà totale di cambiare ogni modello, fino a fare del suo dipinto, non solo la rappresentazione della scena sacra, ma anche quella delle sue emozioni e dei suoi pensieri. 
Il suo cromatismo acceso, i tratti veloci e quasi convulsi delle sue pennellate sono la maniera di esprimere i suoi sentimenti, senza barriere e senza filtri. 
Anche in questo caso, come afferma il grande storico dell'arte Giulio Carlo Argan, "la materia pittorica acquista un'esistenza autonoma, esasperata e quasi insopportabile: il quadro non rappresenta, è".
E cosi' nella sua "Pietà", stravolta e esacerbata, ci consegna un pezzo di sé e della sua anima tormentata e ferita. 




mercoledì 1 aprile 2015

I Mesi degli Arazzi Trivulzio: aprile




Primo d'aprile e nuova immagine del calendario.
Siamo già al quarto arazzo del Ciclo dei Mesi, commissionato, agli inizi del Cinquecento da Gian Giacomo Trivulzio, allora governatore di Milano, eseguito dalla manifattura di Vigevano su disegno di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1465 ca-1530) e ora conservato al Castello Sforzesco di Milano.



Aprile è, da sempre,  il mese dei fiori, della gioventù e dell'amore.
A partire dal nome che alcuni vorrebbero addirittura derivato dalla parola greca "aphros", la schiuma da cui sarebbe nata la dea dell'amore, Afrodite. 
Altri pensano, invece, che derivi dal verbo "aperire" e che alluda allo schiudersi dei fiori. 
Nella scena dell'arazzo- circondata da una cornice con gli stemmi dei Trivulzio e delle nobili famiglie ad essi imparentate- Aprile è, come vuole la tradizione, un giovane abbigliato con una corta tunica e incoronato di rose. 
In piedi su un piedistallo, di fronte a un edificio aperto sostenuto da pilastri, regge con la mano sinistra un mazzo di erbe verdissime e con la destra indica il sole.
In alto, al centro, domina lo stemma dei Trivulzio, mentre, a sinistra, è rappresentato il segno zodiacale del Toro
L'iscrizione, nella parte anteriore del piedistallo, parla della bellezza del mese: "Solum virere dat novum/floremque flori sufficit/cit gaudia apparat iocos/aprilis undique et nitet:
Aprile fa verdeggiare il suolo e fa rifiorire fiore su fiore/ suscita i piaceri, prepara i giochi e risplende dappertutto".

Fiori, campagne verdeggianti, giochi d'amore: la scritta evoca la primavera al suo culmine e la fantasia di Bramantino si scatena. 
Ed ecco che, in basso, il verde dell'erba si riempie non solo di fiori di campo (primule, campanelle, violette...) ma anche di leprotti e di conigli, da sempre simbolo di fecondità.
I lavori agricoli sono rappresentati, a destra, dalla sola figura di una donna inginocchiata che strappa le erbacce per preparare il terreno alla semina. 

Tutti gli altri, contadini, dame o gentiluomini vestiti all'antica con tuniche, mantelli e corono fiorite in testa si limitano a portare vassoi o bacili pieni di fiori, in un'atmosfera di languido ozio, che ben si accorda con la dolcezza della stagione. 
Li precede un bambino nudo, forse un'allusione a Cupido, che porta in mano una ghirlanda di allegri fiori gialli. 
Tutti sono a piedi nudi e i loro gesti sono bloccati come in un passo di danza.


Sullo sfondo, alcuni giardinieri sono al lavoro: uno sta potando alte siepi di bosso per creare, sotto gli alberi, un giardino fatto di bizzarre figure antropomorfe. 
Di sicuro c'è un riferimento all'arte topiaria, la tecnica della potatura che permette di fare assumere alle piante le forme più varie: all'epoca degli arazzi, questa tecnica, ripresa dall'antichità, godeva di una rinnovata fortuna, soprattutto dopo che era stata riscoperta, a metà Quattrocento, per decorare i giardini dei palazzi fiorentini, primo fra tutti quello di Cosimo de' Medici.
Però qui sembra che ci sia anche altro: queste figure a metà tra uomini e alberi, con le mani che diventano rami e le chiome che si confondono con le fronde, non sono solo una decorazione del verde, ma evocano antichi miti e l'arcano fascino delle metamorfosi.
Con i loro volti umani e i loro corpi arborei rimandano alle infinite trasformazioni e all'incessante variare di una natura dall'aria ben poco rassicurante. 
Certo è che di questo Aprile, immaginato dalla fantasia scatenata di Bramantino, quello che rimane in mente non sono i colori variopinti dei fiori del prato o gli uomini e le donne inghirlandate, ma le strane figure dello sfondo.  
In quel giardino incantato il sogno di un'età dell'oro, che il committente voleva fosse ricreato negli arazzi, sembra infrangersi per assumere i contorni inquietanti di un'antica favola crudele. 




Un approfondimento dell'iconografia e delle vicende degli arazzi è in G.Agosti e J.Stoppa, I Mesi del Bramantino, ed.Officina Libraria 2012