sabato 28 marzo 2015

Vincent prima di Van Gogh: la nascita di un artista




Un gruppo di donne, curve sotto il peso dei pesanti sacchi che portano sulle spalle, avanzano faticosamente nella neve: sono le "sclôneuses", le operaie che trasportano i residui ancora utilizzabili del carbone estratto dalle miniere.
Vincent Van Gogh le ha viste nel freddo inverno che ha trascorso nel Borinage e le raffigura così, qualche anno dopo, in questo disegno rifinito ad acquerello, ora al Kröller-Muller Museum di Otterlo.


Quando, nel dicembre del 1878, è arrivato nel Borinage, la regione belga delle miniere di carbone, quella che tutti chiamano il"paese nero", Van Gogh ha venticinque anni. 
Inquieto e introverso ha già cercato di intraprendere vari mestieri, senza mai sentirsi soddisfatto. Suo nonno e suo padre sono tutt'e due pastori protestanti: la religione occupa un posto importante nella sua famiglia e nella sua vita, tanto che, a un certo punto, ha pensato di diventare anche lui pastore o di fare il missionario. 
Dopo un tentativo fallito di frequentare la Facoltà di teologia di Amsterdam, sè iscritto a una scuola di evangelizzazione a Bruxelles  ma, troppo indisciplinato e distratto per finire il corso, ha scelto di trasferirsi, da subito, nel Borinage, dove stanno cercando un predicatore-catechista per una piccola comunità protestante. 
Il Borinage non è un paese facile. Quasi tutti lavorano nelle miniere per un salario miserabile, con un orario lungo e pesante:  i più non sanno né leggere né scrivere. 
Van Gogh sa che avrà a che fare con la miseria, ma solo quando visita una miniera (la Fosse de Marcasse) e scende fino in fondo, dopo cinque piani di gallerie, si rende conto davvero della fatica dei minatori che, ricoperti della polvere scura del carbone, scavano, con i loro picconi, sdraiati o accucciati in quel pozzo nero, dove- come  scrive al fratello Theo- il cielo appare lontano come  una minuscola stella. 
Quello che prova è una grande compassione che abbraccia tutti: sia gli uomini, costretti a faticare in quelle condizioni penose, che i cavalli da tiro, obbligati a trascinare carrelli di carbone e a vivere nelle tenebre a 700 metri di profondità. 
Proprio di questi cavalli, sfiancati dalla fatica, si ricorderà, più tardi, in un disegno ora al museo Van Gogh di Amsterdam:



Al Borinage Van Gogh si sente isolato.
La gente non si trova  a suo agio  con quel predicatore rosso di capelli, venuto dall'Olanda, che parla un francese gutturale e non capisce il loro dialetto. 
I più lo giudicano un esaltato perché vuole vivere come loro e, pur avendo i soldi per permettersi qualche comodità, è andato a stare in una specie di stamberga a Wasmes regalando ai poveri ogni suo avere. 
Quando un'esplosione di grisou nella miniera di Framieres  provoca più di cento morti, Van Gogh è tra i primi a soccorrere i feriti e a solidarizzare con le richieste di migliori condizioni di lavoro.
Però, malgrado tutta la sua buona volontà, non riesce a comunicare con quella gente, di cui apprezza tanto la dignitá e alle sue prediche, in una piccola sala di paese, non ci va quasi nessuno. 
Van Gogh continua ma ha sempre meno fiducia in se stesso.
Intanto, riprendendo una passione che ha manifestato fin da piccolo, riempie di schizzi l'album da disegno che ha portato con sé, cercando di fissare tutto quello che vede: dal paesaggio segnato dalle macchie nere dei mucchi di carbone, ai pozzi delle miniere, alle ciminiere.
Tutte immagini che gli affollano la mente e che riprenderà, qualche anno dopo, nei suoi disegni e negli acquerelli, come questo, ora al museo Van Gogh di Amsterdam, dove raffigura i minatori spossati che tornano dal lavoro e si concedono una pausa nei campi:



Nel giugno del 1879 il suo contratto di catechista scade e non è più rinnovato. 
Van Gogh  è alla disperazione: non sa più cosa fare della sua vita ed è sempre più inquieto. 
Neanche in famiglia si sente compreso: il padre si offre di trovargli un'occupazione qualsiasi e, poi, esasperato dai suoi rifiuti, minaccia addirittura di rinchiuderlo.
Allora ritorna al Borinage e lì, nella solitudine, comincia a intravedere un'altra possibilità.
Si é accorto che le emozioni e i sentimenti che non riesce a esprimere a parole, come la sua solidarietà per quella gente povera e sfruttata, li può tradurre in linee, colori e disegni, insomma, in pittura. 
Si confida, in una lunga lettera, col  fratello Theo: è cosciente di non avere un talento innato per il disegno, ma chiede di mandargli manuali e riproduzioni delle opere di Millet per farne delle copie  
E, poi, si butta a corpo morto a copiare, a correggere i suoi schizzi, facendo e rifacendo esercizi. Compra carta, matite, inchiostro e copia i quadri di Millet, ma anche le incisioni che trova pubblicate nelle riviste e i modelli di anatomia e di prospettiva nei manuali. Non si stanca mai di riempire dei suoi disegni quello che chiama il suo atelier, un angolo della camera in affitto che divide con i figli di un minatore.
Il fratello Theo lo incoraggia, gli manda tutto il materiale e anche un piccolo sussidio finanziario.

Nel marzo del 1880, in un inverno ancora glaciale, van Gogh intraprende un viaggio verso il Pas-de-Calais, prima in treno e poi a piedi, per tre giorni e tre notti, sfidando la pioggia e il vento, per conoscere un pittore che  ammira, Jules Breton.
Arrivato al suo studio è talmente impressionato che non osa nemmeno bussare alla porta e torna indietro. 
Poco importa che l'incontro non ci sia stato: quel viaggio ha rappresentato per lui una sorta d'iniziazione e, alla fine, la decisione è presa. 
Le incertezze e le esitazioni del suo carattere appassionato e inquieto sono finite:  d'ora in avanti si dedicherà solo alla pittura.
Nell'ottobre del 1880 van Gogh lascia definitivamente il Borinage, con la sua valigia piena di schizzi e di disegni ancora goffi e maldestri e le mente piena delle emozioni che ha vissuto.
È passato poco più di un anno e mezzo, un periodo breve, eppure fondamentale per la sua vita. 
In quel paese freddo e senza colori, van Gogh ha trovato finalmente la sua strada.






L'inizio della carriera di Van Gogh e la sua nascita artistica è raccontato in una bella mostra, "Van Gogh au Borinage. La naissance d'un artiste", che si tiene al BAM di Mons, centro del Borinage e capitale europea della cultura 2015, dal 25.01 al 17.05.2015 (qui qui)





sabato 21 marzo 2015

Gli angeli di Goya: gli affreschi di San Antonio de la Florida a Madrid




Se è vero che nessuna foto può eguagliare la sensazione di vedere da vicino un capolavoro, lo è ancora di più per gli affreschi di Francisco Goya (1746-1828) nella cappella di San Antonio de la Florida a Madrid, un piccolo edificio, costruito negli anni '90 del Settecento per volere del Carlo IV su progetto dell'architetto Filippo Fontana in una zona allora piena di parchi e giardini e ora invasa da palazzoni di periferia.
Quando si entra la prima cosa che colpisce sono gli angeli.


Sì, proprio gli angeli!
Basta guardare in alto per scoprire che tutto lo spazio intorno alla cupola e all'abside, dai sottarchi, alle lunette, ai pennacchi è invaso da figure di putti e, soprattutto, di donne-angelo, sospese in volo con ali di farfalla.



Tracciate con una pittura fluida e veloce, abbigliate con morbide tuniche bianche ornate di balze ricamate e chiuse da fusciacche di seta, da sole o in coppia aprono le cortine di un sipario di teatro bianco e dorato per rivelare le scene sacre:


Oppure si dissolvono nella luce chiara che entra dalle finestre


Mentre, con i loro volti perlacei e le acconciature di nastri intrecciati, sembrano contemplare il miracolo che si svolge davanti a loro e- complice forse qualche restauro- hanno l'aria elegante di figurine dell'art nouveau.



Nel 1798, quando riceve, da parte del re, la commissione di affrescare l’intera cappella,  Goya, ha  cinquantadue anni ed è da poco diventato sordo  a causa dei postumi di una malattia.
Anche se, dopo la nomina a "pintor de camera del Rey", la sua carriera ha raggiunto il culmine, tende a isolarsi e ad appartarsi sempre di più. 
Negli anni passati ha lavorato quasi a tempo pieno per la corte, facendo di tutto, dai ritratti, ai cartoni per gli arazzi. 
Ormai è un artista famoso, le sue stampe e le sue incisioni circolano ovunque. 
Di sicuro, non ha più bisogno di conferme; quello che vuole, invece, è la libertà di praticare una pittura  dove “la fantasia e l'invenzione non abbiano limiti”.  
E, stavolta, siccome la commissione dipende dal re e non deve essere approvata né dall'Accademia, né dalla gerarchia ecclesiastica, gli hanno assicurato che non avrà nessun vincolo e potrà dipingere come gli piace. 
L’unico obbligo è quello di un soggetto legato alla vita di sant'Antonio da Padova, titolare della cappella e la cui devozione è allora (come tuttora) molto diffusa a Madrid per la sua fama di protettore delle donne  in cerca dell'anima gemella.
Non appena firmato il contratto, Goya si mette subito al lavoro, e, una volta sistemati i ponteggi, comincia a eseguire l’affresco.
Per sei mesi, da giugno a dicembre del 1798, va avanti  senza pause, come un forsennato. 
A volte usa cartoni e disegni preparatori, a volte, invece, lavora direttamente sull'intonaco fresco, riprendendo a secco solo qualche dettaglio. 
Quando, finalmente, si tolgono i ponteggi tutti possono ammirare la sua creazione. 
E quello che vedono va al di là di ogni aspettativa.



Intanto, invertendo l'iconografia tradizionale, Goya ha raffigurato la scena principale non nell'abside, ma nella cupola, in genere riservata all'apparizione divina
Poi, ha scelto di rappresentare un episodio che è un vero e proprio "coup de théâtre": quello  in cui sant'Antonio, trasportato miracolosamente da Padova a Lisbona, resuscita un morto assassinato, che, con la sua testimonianza, può scagionare il padre, accusato ingiustamente del delitto (qui)


Non bastasse, ha ambientato il miracolo nella Madrid contemporanea e vi ha fatto partecipare una folla non troppo diversa da quella che si può incontrare allora, proprio davanti alla cappella, nelle feste e nelle fiere popolari sulla riva del Manzanarre.
Sotto un cielo nuvoloso, attorno alla ringhiera di ferro di uno di quei  balconi così frequenti negli edifici del tempo, ha disposto, personaggi tratti dalla vita di tutti i giorni.


Ed ecco che compaiono donne eleganti, gentiluomini, ma anche popolani e mendicanti che guardano con curiosità quello che sta succedendo, commentano, chiacchierano tra di loro, oppure sbirciano in basso verso lo spettatore, mentre vivaci scugnizzi si arrampicano, senza paura, sul parapetto.
Il ricordo va dai soffitti affrescati, proprio in Spagna, da Tiepolo, alle cupole barocche, fino ad arrivare, andando all'indietro, alle straordinaria invenzioni di Correggio o all'arioso balcone che si apre nel soffitto della camera degli sposi di Mantegna. 
Il tutto è reinterpretato e quasi stravolto da uno stile di grande immediatezza, che sembra puntare  sui gesti e sulle espressioni, e che lascia le figure non rifinite se non, addirittura, appena abbozzate.
Uno stile che travolge tutta la decorazione della cappella  e che non si arresta nemmeno nella raffigurazione dell'abside, dove in uno sfolgorio d'oro e di luce, è raffigurata l'"Adorazione della Trinità" con gli angeli che quasi si trasfigurano nel chiarore abbacinante del cielo.


Miracoli, santi, gentiluomini, popolani, bambini sfrontati: la pittura di Goya è come un fiume in piena che tracima nello spazio ristretto della cappella.
Un fiume di luce, ancora lontano dagli incubi che- dopo la guerra contro le truppe napoleoniche (ne ho parlato qui) e la sanguinosa restaurazione del regime borbonico- ne avveleneranno il cuore e l'arte,  fino alla raffigurazione dei mostri che gli abitano la mente nelle "pitture nere" dell'ultimo periodo (quie alla decisione di trasferirsi in Francia.
Invece qui, nella piccola cappella, le luminose invenzioni della sua pittura possono ancora vincere sulle ombre e calmare il suo male di vivere.
Non c'è, dunque, da stupirsi che, nel 1919, quando si decise di traslare a Madrid le spoglie di Goya, si sia scelto proprio san Antonio de la Florida per ospitare la sua tomba. 
E che ora l'artista riposi per sempre, protetto dalla splendente bellezza  delle sue donne-angelo.







Per informazioni su San Antonio de la Florida un link è qui

domenica 15 marzo 2015

Joaquín Sorolla: l'innamorato della luce




Il bianco delle vesti, il mare e la luce in questo dipinto del 1909 intitolato "Las dos hermanas"del pittore spagnolo Joaquín Sorolla (1863-1923) ora al Museo Sorolla di Madrid: 


Il candore degli abiti, il giallo dei cappelli di paglia, l'azzurro splendente dell'acqua, tutti i colori vivi del sole e della sabbia, dipinti con pennellate fluide e veloci: quale tela, meglio di questa, potrebbe esprimere l'essenza stessa dell'arte di questo pittore innamorato della luce?
Essere nato e cresciuto nel sud della Spagna, a Valencia, ha significato per Sorolla impregnarsi, fin da subito, della luminosità abbagliante del Mediterraneo.
Quello che è certo è che non se ne scorderà mai più.
E nemmeno si dimenticherà della felicità di giocare col mare che, forse, ha provato da bambino e che raffigura in questi questi "Ninos en la playa" del 1910 (ora al museo del Prado), dove tre bambini nudi si divertono sul bagnasciuga, lasciandosi andare al piacere di farsi accarezzare dalle onde. 
Il riflesso incandescente dell'acqua sui corpi bagnati, i piccoli tocchi bianchi, i giochi dell'ombra tra mare e sabbia umida ne fanno una delle opere più rappresentative della sua idea della pittura come celebrazione sensuale della luce.



La biografia dell'artista scorre apparentemente lineare e senza troppi turbamenti, malgrado la nascita in una famiglia povera e i primi anni difficili dopo la morte dei genitori: la formazione accademica, prima a Valencia e poi a Madrid, i tanti viaggi, dall'Italia, alla Francia, agli Stati Uniti, i rapporti con i pittori contemporanei, l'attenzione ai problemi sociali e, poi, l'affermazione, i premi, le medaglie, la lunga carriera piena di riconoscimenti e con un grande successo di pubblico (qui).
I documenti che ha lasciato testimoniano di una vita privata agiata e appagata nell'amore della moglie ("la mia Clotilde", tante volte citata nelle lettere piene di tenerezza che le invia giornalmente durante suoi viaggi) e dei figli, che rappresentano i suoi modelli preferiti: "un uomo affettuosissimo e innamorato della famiglia", lo definisce il nipote in un'intervista. 
Nella sua sterminata produzione (che conta più di duemila opere) rimane sempre fedele a uno stile, folgorato, all'inizio, dalla pittura di Velazquez e poi influenzato dalla corrente del "luminismo" post- impressionista, senza lasciarsi mai toccare dalle inquietudini delle avanguardie. 
Così in questi "Ninos a la orilla del mar" è solo la luce che definisce i corpi:



Una pittura troppo facile, quasi da cartolina, gli rimproverano, dopo la morte, i più malevoli dei detrattori. 
E, invece, oggi, dopo un lungo periodo di oblio, è proprio la gioia pura che trasmette nei suoi dipinti quella che colpisce ed emoziona. 

Come in questo "Saliendo del baño" del 1915, ora la museo Sorolla di Madrid, dove una morbida luce rosata sembra avvolgere nella tenerezza le figure della donna e del bambino:




Tre anni fa, grazie a una mostra che si è tenuta a Ferrara (qui), sono rimasta affascinata dal suo modo di dipingere che ha l'immediatezza di un'istantanea e una grazia così spontanea da ricordarmi, a volte, i versi delle poesie di Sandro Penna.
Visitando, in questi giorni, a Madrid la sua casa che è diventata il suo museo (qui), con il suo giardino decorato di azulejos e di conche di aranci, che rievocano il patio delle città andaluse e che nemmeno i recenti lussuosi condomini costruiti accanto riescono a soffocare, quel fascino si è accresciuto di nuove suggestioni: i  colori vivaci delle ceramiche che amava collezionare, le tappezzerie scure, alla moda del tempo, riscaldate dal fragore dei suoi colori, l'intimità affettuosa dei suoi  ritratti di famiglia appesi alle pareti del salotto, la cura nell'arredamento delle stanze più private, testimoniano di quel calore e di quella serenità che traspare in tutte le sue tele.

Fra i suoi dipinti ho scelto di pubblicare qui le immagini che rimandano al suo amore per il mare, una presenza che lo accompagna per tutta la vita e che compare, come motivo dominante, in tutta la sua produzione. 
Non è difficile immaginarlo mentre dipinge, riparato da un grande ombrellone bianco, con tutto il suo armamentario di tavolozze, cavalletti e tubetti di colore nella spiaggia della Malvarosa di Valencia o, più tardi, in quella di Biarritz, cercando di fermare, nelle sue tele, gli infiniti riflessi della luce sull'acqua o sul giallo dorato della sabbia.
Come in questo "Mediodia en la playa" del 1904, dove la silhouette della bambina si staglia in controluce sull'azzurro del'acqua e sul bianco della schiuma delle onde.


  

Oppure in questo " Bajo el toldo" del 1910, ora al Saint Louis Art Museum, dove, invece, la luce è quella smorzata di una tenda, sotto cui sostano la moglie e le figlie, con i loro leggeri vestiti estivi in mussolina, sulla spiaggia di Zarauz: 





A volte, Sorolla si ferma a osservare i lavori dei pescatori, come in questo "Cosiendo la vela" del 1904, dove il primo piano è occupato dalla superficie bianca della vela che spicca sulla sabbia, immersa nella luce abbacinante di una giornata estiva:





A volte, invece- come in questo "La playa" del 1909- sa cogliere la meraviglia di una bambina che si ferma attonita di fronte allo spettacolo stupefacente del mare: 



E in quella stessa meraviglia coinvolge anche noi. Forse l'incanto delle opere di Sorolla sta  proprio nella sua facoltà di osservare la mutevolezza della luce, come se la guardasse con occhi sempre nuovi e nella sua capacità di racchiudere nei suoi colori abbaglianti, nelle sue pennellate liquide, nella candida luminosità dei suoi sfondi, la voglia di abbandonarsi- in quella luce- alla felicità del momento e di gustare, fino in fondo, il piacere breve e intenso del vivere. 





domenica 8 marzo 2015

"La bella cioccolataia" di Jean-Etienne Liotard




"Che vita maledetta/ è il far la cameriera!.../È mezz'ora che sbatto./ Il cioccolatte è fatto/ ed a me tocca/ restare a odorarlo/ a secca bocca..../ Per Bacco, vo' assaggiarlo!/ Com'è buono!"
Così canta Despina in "Così fan tutte" di Mozart (qui)
Meno golosa e meno impaziente sembra "La bella cioccolataia", ritratta tra il 1743 e il '45 da Jean-Etienne Liotard (1702-1789) nel pastello su pergamena (82x52), attualmente conservato alla Gemäldegalerie di Dresda.



Eccola che cammina, tutta impettita con lo sguardo diritto davanti a sé e così concentrata da non cedere nemmeno alla tentazione di un sorriso.
Sa che ci vuole una grande attenzione per trasportare la tazza con la cioccolata senza versarne nemmeno una goccia. 
Sarebbe davvero un guaio sprecarla!
All'epoca la cioccolata è un genere di gran lusso, riservato solo alle classi più agiate. 
Per servirla si usano le suppellettili più pregiate: qui, per esempio, il vassoio laccato è una "chinoiserie" d'importazione, la tazza è in porcellana di Meissen, il supporto per impedire di rovesciarsi, la cosiddetta trembleuse, è in argento massiccio.
Accanto alla cioccolata, preparata molto densa e servita bella calda, non manca il bicchiere d'acqua indispensabile per una corretta degustazione.
A Vienna, alla corte dell'imperatrice Maria Teresa, la cioccolata mattutina è diventata un'abitudine: da quando la Chiesa ha dichiarato che la dolce bevanda non infrange nemmeno l'obbligo del digiuno, anche i più osservanti possono abbandonarsi senza rimorso alla golosità. 
E chissà che anche  Jean-Etienne Liotard non condivida questo piacere.
Svizzero di nascita è arrivato a Vienna, preceduto dalla fama di grande ritrattista, capace di usare, come pochi, i colori a pastello; l'imperatrice lo apprezza a tal punto che gli ha commissionato il suo ritratto, insieme a quello dei suoi familiari e degli altri componenti della corte. 
Si dice anche che lo abbia preso in grande simpatia e non è da escludere che gli abbia pure concesso di partecipare a una di quelle raffinate colazioni che sono diventate uno dei suoi svaghi preferiti. 

C'è solo da immaginarsi la scena in quei salotti tappezzati di seta con i mobili dorati e i tavoli pieni di ninnoli di porcellana: Liotard, con il suo abito "alla turchesca", il colbacco di pelliccia e la folta barba nera che ha cominciato a sfoggiare dopo un lungo soggiorno alla corte ottomana, probabilmente, spicca come un elemento alieno tra le gentildonne abbigliate di seta e i gentiluomini sbarbati e incipriati, mentre si siede, apre la scatola di pastelli e si mette a ritrarre la graziosa servetta che porta la cioccolata, con la stessa cura che ha riservato ai più aristocratici dei cortigiani.
Con calma, delinea, su uno sfondo neutro, con pochi colori nella gamma ristretta del grigio del rosa e dell'ocra, la figura della giovane donna col suo grembiule di un bianco immacolato e il suo abbigliamento sobrio, ma non esente da qualche civetteria, che avanza immersa in una luce fredda e chiara.



Nessuna sfumatura, nessuno di quei "tocchi di cipria" che hanno fatto la fortuna della più celebre pastellista del tempo, Rosalba Carriera (ne ho parlato qui).
La sua, invece, è una pittura nitida, rifinita con un'accuratezza che risente della sua formazioni di miniaturista.
Nella composizione non c'è alcun elemento superfluo: solo il vassoio, la tazza e il bicchiere d'acqua, in cui si riflette la luce delle finestre che illuminano l'ambiente.
Una pittura precisa, raffinata e aggraziata, talmente piacevole da procurargli subito un acquirente non di poco conto: il filosofo e scrittore veneziano Francesco Algarotti che non bada a spese pur di assicurarsi il pastello per conto del grande collezionista Augusto di Sassonia.


La bella cioccolataia passa dunque da Vienna a Dresda: e lì sarebbe rimasta, garbata e imperturbabile, nella penombra di quel palazzo, trasformato in museo, se non fosse stata notata, a fine '800, dal presidente di una ditta americana di cioccolato, la Baker, che decide di acquistare i diritti  di riproduzione per farne il suo marchio di fabbrica.
Senza sapere di concederle, così, una seconda vita.

Stampata su innumerevoli scatole di latta con l'etichetta "La belle chocolatière", l'immagine della giovane diventa, se non famosa, almeno conosciuta e entra, all'ora di colazione, in molte delle case, anzi, delle cucine americane. 
Col suo garbo discreto di damina d'altri tempi, affascina e desta curiosità. 
Al punto che qualche accorto pubblicitario pensa di aumentare i consumi, solleticando  i sogni delle casalinghe e ricreando per lei, in un inserto del libro di ricette della Baker, tra una spiegazione e l'altra di una torta, una vita da protagonista di un romanzo rosa: figlia di un cavaliere squattrinato, obbligata dalla miseria a lavorare in un negozio di cioccolato, avrebbe conquistato l'amore di un principe che, vincendo tutti gli ostacoli, l'avrebbe fatta sua sposa. 

Dall'Europa agli Stati Uniti, da servetta a principessa, la strada è stata, davvero, lunga.
Ma, esposta in un museo, o riprodotta nell'etichetta di una confezione, questa gentile figura di donna ha mantenuto intatto il suo incanto.
Il fatto è che in quel giorno lontano, alla corte di Vienna, un eccentrico pittore svizzero ha compiuto un capolavoro.
Ritraendo il suo volto pulito, le sue guance sfumate di rosa, i capelli che escono dalla vezzosa cuffietta ornata di pizzo, Liotard ha creato un'immagine perfetta di grazia femminile, destinata ad attraversare i secoli, avvolta nell'intensa scia dell'aroma del cioccolato.




domenica 1 marzo 2015

I Mesi degli Arazzi Trivulzio: marzo




Siamo già al primo del mese ed è l'ora di vedere cosa ci riserva Marzo nel ciclo di arazzi, commissionati agli inizi del Cinquecento a Milano dall'allora governatore della città, Gian Giacomo Trivulzio e oggi conservati al Castello Sforzesco. 
Marzo è il Mese che apre la serie. 
Come in altre altre parti d’Italia anche a Milano l'anno comincia il 25 del mese, vale a dire il giorno dell’Annunciazione, nove mesi esatti prima di Natale. 


Nel grande arazzo (cm 466x490), tessuto con fili di lana e di seta tra il 1504 e il 1509 nell'arazzeria di Vigevano, sotto la guida di Benedetto da Milano e sulla base di un cartone di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1465 ca-1530), la scena è inquadrata da una cornice in cui si ripetono gli stemmi dei Trivulzio e delle nobili famiglie ad essi imparentate. 
In alto, al centro, tra il Sole e il segno zodiacale dell’Ariete, domina il grande stemma dei Trivulzio, inquadrato dai rami di un albero e sorretto da due soldati con armature all'antica che alludono sia al mestiere delle armi, esercitato con abilità e spregiudicatezza dal committente degli arazzi, sia al dio Marte protettore del mese. 
In basso, davanti al piedistallo, un’iscrizione in latino  descrive le caratteristiche del mese  “Annum  inchoat resolvitur/terra omnia unde germinavit/homines, pecora, pisces, aves /agitque amore martius:  Marzo inizia l’anno, la terra è risarcita di tutto quello che ha germogliato e accende di desiderio gli uomini, gli animali, i pesci e gli  uccelli ”.

Marzo è rappresentato come un giovane vestito con una tunica rossa, con i piedi nudi e la testa adornata da una ghirlanda di foglie.
In una mano tiene una lunga stecca con cui indica il sole e nell'altra, invece, un picchio verde, l’uccello tradizionalmente legato alla rappresentazione di Marte, il dio della guerra, da cui trae il nome. 
Se si guarda da vicino si può vedere che dalle pieghe della tunica, all'altezza del busto, spuntano- sorprendentemente- delle piccole facce, che ai più colti possono ricordare le mammelle dell’arcaica Diana Efesia, e che, forse rappresentano anch'esse un simbolo del rinnovamento e della fecondità della natura. 
Sullo sfondo di imponenti edifici e di una campagna ancora invernale che degrada verso le montagne, sono raffigurati i lavori agricoli del mese, incentrati sulla coltivazione degli alberi da frutta.
A sinistra è raffigurata la potatura, mentre, a destra, è rappresentata la pratica dell’innesto su un ciliegio. 
In basso, ancora a sinistra, alcuni contadini, con asce e badili, lavorano intorno a un ceppo; a destra, invece, vangano la terra. 

Bramantino sfoggia qui tutto il suo gusto per gli arditi scorci prospettici, per i giochi intellettuali e per gli enigmi, con cui sfida l’intelligenza degli spettatori. 
Non bastassero le faccine che spuntano dalla tunica di Marzo, inserisce, al suolo, accanto a una borraccia e a una zucca, un erpice capovolto, i cui denti metallici formano una strana decorazione. 
Proprio  fronte al piedistallo raffigura, poi, quattro volti con le gote gonfie che spuntano dal terreno come bizzarri fiori. 
Una strana apparizione, non c'è che dire. 
Basta, però, un po' di pazienza (e una buona bibliografia) per riconoscere  in quelle quattro facce nient'altro che il simbolo della rosa dei venti e per metterle in relazione con il mese di Marzo, legato- secondo la tradizione- a Eolo e alla mutevolezza dell'aria (ne ho parlato qui).

Robusti contadini al lavoro nei campi, guerrieri, stemmi nobiliari, apparizioni misteriose e riferimenti all'antichità classica: il repertorio è completo. 
Il committente può dirsi soddisfatto all'idea che, nell'affollata e enigmatica scena che dà inizio alla serie, non compaia nessuna eco della turbolenta realtà esterna e che, nei colori vivi dell'arazzo, la difficoltà della vita quotidiana si stemperi nei contorni astratti di un'immagine senza tempo.







Un approfondimento delle vicende e dell'iconografia degli arazzi è in G.Agosti e J. Stoppa, I mesi del Bramantino, ed.Officina Libraria 2012