sabato 24 gennaio 2015

"Apollo dormiente e le Muse" di Lorenzo Lotto




Cosa succede nel Parnaso raffigurato da Lorenzo Lotto (1480-1556) in questa piccola tela (44x74) ora al Museo di Budapest?



In una radura entro un bosco fitto di alberi, Apollo ha abbandonato la faretra e la lancia, appendendole a un ramo. 
Sorregge ancora la lira da braccio, con cui, forse, era intento a suonare, ma dopo aver reclinato la testa sul braccio destro, appoggiato al tronco di un albero, si è messo a dormire. 
Invano la Fama, rappresentata come una figura alata con tanto di flauto e tromba, cerca di svegliarlo, volandogli sopra la testa.
Nulla da fare! Il sonno del dio è talmente profondo che non si accorge nemmeno di quello che sta succedendo.

La luce, che filtra tra gli alberi, illumina nove tuniche variopinte. stese a terra ai suoi piedi, tra strumenti musicali, libri semi-aperti e perfino una sfera armillare. 
Sono le vesti e i simboli delle arti che le Muse hanno abbandonato in tutta fretta, desiderose solo di vagare nude tra i declivi di una campagna verdeggiante, illuminata dalla prima luce dell'alba. 
Da solenni e compunte rappresentanti delle arti, si sono trasformate in giovani Ninfe scatenate che danzano in completa libertà.


Apollo addormentato, le Muse che scappano come ragazzine capricciose, un albero che divide la scena in due parti nettamente separate: insomma, un'allegoria con una rappresentazione del Parnaso ben poco consueta.

Del resto, non c'è da aspettarsi niente di diverso da un pittore eccentrico e anticonformista come Lotto, capace di scardinare, con le sue invenzioni, tutti i generi pittorici, dalla scena sacra a quella mitologica, al ritratto (ne ho parlato qui e qui)

Il dipinto è generalmente datato intorno agli anni 1545-49. 
Siamo, dunque, nel periodo in cui Lotto è rientrato a Venezia, la città in cui è nato e da cui è fuggito per non sottostare alla supremazia pittorica di Tiziano. 
Il suo carattere inquieto e solitario lo ha costretto a viaggiare per anni, vagando tra Roma, Bergamo e le Marche e inseguendo una stabilità che non riesce a trovare.
Ora che è ritornato, si sente vecchio e solo, oppresso da assilli economici che gli amareggiano la vita e lo costringono a cambiare continuamente di residenza, senza avere pace.
Soltanto la pittura lo placa, come in questa tela, che- in assenza di committenti documentati- sembra dipinta solo per se stesso.


"Apollo dormiente in Parnaso e le Muse andar disperse... quello dorme e quelle confuse": è la descrizione del soggetto che Lotto appunta nel suo taccuino di lavoro, ma che non ne chiarisce fino in fondo il significato. 
Le interpretazioni sono state tante, così come i rimandi a quella cultura filosofica, venata di esoterismo, che era tipica della Venezia del tempo.
Forse, il sonno di Apollo simboleggia quello della ragionevolezza e della misura che lascia spazio all'irrazionale e all'eccesso. 
O, al contrario, è il simbolo di quella sorta di vuoto della mente, la "vacatio animae, la vacanza dell'anima", di cui parla anche un filosofo come Marsilio Ficino, necessario all'artista per abbandonarsi al mondo dello spirito e all'ispirazione. 
Oppure....chissà!
Il significato della piccola tela rimane un enigma che, forse, nemmeno Lotto vuole sciogliere del tutto.

L'ambiguità, in effetti, non fa che aumentare il fascino del dipinto, dove l'alternarsi di ombra e di luce evoca l'oscurità del bosco e la quiete del sonno del dio, mentre le tuniche, abbandonate a terra, si trasformano in puri tocchi di colore. 
In questo mondo illusorio, ricreato dal suo pennello e dalla sua fantasia,  le muse possono danzare, nude e libere da ogni costrizione, in un paesaggio che degrada dolcemente dal verde all'azzurro dell'orizzonte. 
E, nell'incanto della sua pittura, l'allegoria cede il passo alla poesia.





Il dipinto è stato esposto alla bella mostra "il sogno nel Rinascimento" che si è tenuta a Palazzo Pitti a Firenze nel 2013: qui è il link

sabato 17 gennaio 2015

"A letto" di Edouard Vuillard




Io vivere vorrei addormentato
entro il dolce rumore della vita.
(Sandro Penna)


Un dipinto che più lieve non si può, adatto alla voglia di sonno (e di sogni) di queste uggiose giornate invernali: "A letto" di Edouard Vuillard (1868-1940), oggi conservato a Parigi al Musée d'Orsay.


Una ragazza dorme, in un letto candido.
Sommersa dalle lenzuola e dai cuscini, lascia intravedere solo una parte del viso e dei capelli scuri.
Il soggetto è ridotto all'essenziale con una stesura uniforme dei colori e una tavolozza limitata a un minimo di toni pastello, dall'ocra, al verde chiaro e al grigio. Nessun chiaroscuro a sottolineare il rilievo, nessuna inquadratura prospettica a dare l’idea della profondità.
Un dipinto semplice, e- qualcuno potrebbe pensare- quasi banale.
Eppure questa tela, datata 1891, fu salutata al suo apparire come una novità.

All’epoca, Edouard Vuillard ha ventitré anni, viene da una famiglia modesta: è orfano di padre e la madre, per mantenerlo, ha organizzato in casa un piccolo laboratorio di corsetteria. 
Gli amici lo descrivono come un sognatore quieto e riflessivo, anche se tenace come pochi nel perseguire la sua più grande aspirazione: quella di dipingere. E di dipingere a modo suo. 
Fosse stata di piccolo formato, la tela sarebbe potuta sembrare uno studio, un puro esercizio di stile. 
Invece Vuillard sceglie le dimensioni (73x92 cm) di un quadro vero e proprio per riassumere molte delle idee elaborate all'interno del movimento artistico, di cui fa parte: i Nabis (la parola ebraica per profeti)
Sono tutti giovani infervorati ed entusiasti, che dibattono con foga i loro pensieri sulla pittura all’Académie Julian, dove frequentano i corsi d'arte, o che discutono, fino a tarda notte, ai tavolini fumosi di qualche caffè. 
Alla base, c’è un concetto che tutti condividono: il quadro per loro non è  che "una superficie piana coperta di colori", non deve, cioè, riprodurre la realtà così com'è, né tanto meno essere verosimile, ma deve, invece, esprimere emozioni e sentimenti (ne ho parlato anche qui).

Vuillard concorda appieno con queste idee e le illustra in questa tela come meglio non potrebbe.
La schematizzazione, l’assenza di profondità e le grandi superfici piatte di colore rimandano alla sua passione per la pittura di Gauguin e per le stampe giapponesi, mentre la croce,  formata, sopra la testa della ragazza, dall'incrocio di due linee di un marrone più scuro, ricorda la sua educazione cattolica e il misticismo caro alla maggior parte dei Nabis. 
La gamma neutra e smorzata delle tinte gli serve a tradurre in pittura l'idea stessa della tranquillità e del silenzio. 
Con l’armonia dei colori e la limpidezza della stesura, poi, rafforza l’impressione che la ragazza, affondata nei cuscini, stia per abbandonarsi ai suoi sogni, cullata, magari, dal suono dolce di una ninna nanna.
Così, con questa pittura apparentemente fin troppo facile, incerta tra intimità, grazia e un pizzico di umorismo e di ironia, arriva a trasmetterci  la stessa emozione di una piccola poesia o di un brano di musica. 
E a lasciarci avvolti in una sensazione di leggerezza e di serenità.
Il che, di questi tempi, non è poco.





martedì 13 gennaio 2015

"Dipingere col sentimento": il "Vaso di Fiori" di J.S.Chardin



Ci sono giornate in cui si ha voglia di una pausa per sfuggire alla concitazione e al fragore che si sente intorno. 
In questi momenti non c'è nulla di meglio che fermarsi per un po' e, magari, prendersi il tempo di guardare un dipinto come questo: una piccola tela (44x36cm) di Jean-Siméon Chardin con un "Vaso di fiori", ora alla National Gallery di Edimburgo.


Su uno sfondo bruno, su un ripiano di pietra, è appoggiato un vaso bianco con le decorazioni blu tipiche della maiolica di Delft, con un mazzo di garofani, tuberose e piselli odorosi. Tutto qui.
Il dipinto non è firmato né datato, ma probabilmente è da riferire alla metà degli anni '50 del Settecento.
Jean Siméon Chardin (1699-1779), all'epoca, ha una sessantina d'anni e può dirsi soddisfatto del percorso che ha compiuto, malgrado all'inizio abbia fatto le sue scelte fuori dagli schemi più collaudati: agli insegnamenti accademici, ai viaggi di formazione e allo studio dei grandi maestri del passato, ha preferito, da sempre, la rappresentazione della realtà. 
Per questo- nella sua produzione- ha dato largo spazio alle "nature morte", anche se si tratta di un genere collocato all'ultimo posto nelle rigida gerarchia dell'epoca, dopo la pittura di storia (mitologica o sacra) il ritratto e la scena di genere.
A costo di limitare la sua carriera, Chardin è rimasto fedele all'idea di dipingere "nel modo più vero possibile", privilegiando l'osservazione diretta di tutti i più minuti aspetti del quotidiano.

Come in questo dipinto, l'unica composizione floreale che sia arrivata fino a noi.
Inutile cercarvi dettagli lussuosi o quegli effetti trompe-l'-oeil, tipici dei sontuosi trionfi di fiori della pittura fiamminga. 
E nemmeno occorre scoprirvi simboli o astruse allegorie.
Chardin ha scelto di bandire ogni elemento superfluo e di concentrarsi solo sull'essenziale. 
La sua è una pittura che si basa tutta sulla variazione degli effetti di luce e su piccoli tocchi di colore, dai bianchi, verdi e rosa dei fiori, all'azzurro che spicca sul fondo candido del vaso, al rosso vivo del garofano posato sul ripiano.
Le pennellate vibranti, a tratti pastose, a tratti più sottili, arrivano quasi a scomporre la materia, tanto che un grande studioso come Charles Sterling può sostenere che questo piccolo dipinto "sorpassa tutto ciò che dipingeranno in questo genere Delacroix, Millet, Courbet, Degas e gli impressionisti. Solo in Cézanne e nel suo seguito si può pensare di trovare tanta forza in tanta semplicità"
La semplicità, appunto, è la chiave per comprendere questa tela, immersa in una luminosità pulviscolare e talmente disadorna e priva di orpelli, da restituire una sensazione di intimità e di quiete, che arriva dritta al cuore.
Malgrado la sua austera sobrietà, provoca in noi una tale pienezza di sensazioni da giustificare l'affermazione di Chardin, riportata nel 1780 da uno dei suoi biografi, Jean-Nicholas Cochin: "Chi vi ha detto che si dipinge con i colori? Ci si serve dei colori, ma si dipinge col sentimento".

Un "Vaso di fiori", niente altro. 
Eppure in questo dipinto si ritrova tutta la magia di Chardin, quella qualità misteriosa che aveva colpito uno dei suoi più grandi estimatori, l'esponente di punta dell'illuminismo francese Denis Diderot.  
Nella silenziosa armonia di questa composizione c'è quell'incanto che Diderot ritrova in tutta la sua pittura e che tuttora ci induce a soffermarci per osservarla "alla maniera del viaggiatore che, stanco del suo andare, si siede quasi senza accorgersene, non appena trova un letto d'erba, silenzio, acqua, ombra e frescura" 




Una mostra tenutasi a Ferrara nel 2011 ha ripercorso  l'attività di questo straordinario artista: qui è il link


venerdì 2 gennaio 2015

I Mesi degli arazzi Trivulzio: gennaio



Anno nuovo calendario nuovo. 
Per illustrare i mesi del 2015 niente miniature, sculture o affreschi come negli anni scorsi, ma dodici variopinti arazzi di circa cinque metri per cinque, oggi conservati al Museo d'arte antica di Palazzo Sforzesco a Milano.
La serie viene commissionata nel 1501, dal governatore della città, Gian Giacomo Trivulzio per celebrare il matrimonio dell'unico figlio Gian Nicolò con Paola Gonzaga. 
L'esecuzione è  affidata a Benedetto da Milano, capo della prima arazzeria istituita,  da poco istituita a Vigevano. 
Tra tra 1504 e 1509, insieme ai suoi collaboratori, tessendo con fili di lana  e  di seta, Benedetto dà forma e colore ai grandi cartoni disegnati da Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1465 ca-1530), con una perizia  che nulla ha da invidiare alle più reputate arazzerie fiamminghe.
Ed ecco il mese di gennaio:


La scena del mese è rappresentata entro una cornice in cui sono raffigurati gli stemmi dei Trivulzio e delle nobili famiglie ad essi imparentate. 
In alto, tra il sole e il segno zodiacale dell'Acquario, domina un tondo con lo stemma di Gian Giacomo Trivulzio, Sopra il cimiero, una figura di donna alata, una sorta di arpia o di sirena, tiene tra le mani una lima che si spezza contro un diamante. In un cartiglio è inscritto il motto dei Trivulzio in francese antico: "ne t'esmai" vale a dire "non temere" o "non perderti d'animo".
La scena si volge in una piazza, circondata da edifici che hanno l'aria di una scenografia teatrale. 
Al centro, sopra un'ara classica,Gennaio è personificato dal dio Giano, il dio romano che apre e chiude le porte, protettore della pace e della guerra, da cui, secondo un'antica tradizione, avrebbe tratto il nome. 
Il dio bifronte con un volto barbuto e uno glabro tiene, in una mano, un bastone con cui indica il sole e nell'altra una gigantesca chiave. Nella parte anteriore dell'ara è incisa l'iscrizione: "Palos acuit ut vitibus/ foetura aves cortis vocat/iungit boves pulsa solo/ et Ianuarius nive" "Gennaio aguzza i pali per le viti,  richiama i polli nei cortili e tolta la neve dal suolo aggioga i buoi". 
Le attività del mese non sono molto impegnative, ridotte come sono a pali da aguzzare e polli da scacciare. 
Col gelo il terreno diventa troppo duro ed è impossibile lavorare nei campi, tanto che i contadini sono obbligati a un ozio forzato. 

Sulla destra, gli attrezzi agricoli giacciono inutilizzati a terra un uomo siede spossato accanto a un bambino, mentre un giovane in piedi con le braghe tutte stracciate tiene svogliatamente una vanga e sembra assorto nei suoi pensieri. 
Tutt'intorno  la gente festeggia un carnevale precoce: a sinistra, ai piedi dell'ara, uno zampognaro  tiene accanto a sé una brocca e due bicchieri pieni a metà. 
Al suono della zampogna quattro persone accennano ai passi di una danza moresca. 
L'uomo in primo piano indossa un turbante così come la donna che, alla maniera orientale, ha il volto velato. Anche i personaggi sullo sfondo sembrano danzare: uno è nudo, mentre due indossano strani costumi a scaglie e portano bastoni a cui sono appesi dei palloni o delle vesciche di maiale gonfie d'aria com'era uso nei carnevali del Nord. 
A destra,  una zona più scura del suolo sembra indicare la presenza di una lastra di ghiaccio che riflette alcuni passanti. Il clima è freddo, anche se il cielo, in cui si intravedono stormi di uccelli in volo, è di un azzurro terso. 
Dalle finestre uomini e donne guardano incuriositi quello che succede nella piazza, mentre le porte dell'edificio circolare sullo sfondo sono chiuse, come quelle del tempio che i Romani avevano dedicato a Giano e che restavano serrate in tempo di pace.

Ed è, appunto, la pace che Gian Giacomo Trivulzio vuole celebrare. All'epoca è un uomo maturo, un condottiero spregiudicato, più abituato alla guerra che alle arti e  che è sopravvissuto indenne a tutti i cambiamenti e a tutti gli intrighi mutando bandiera  a seconda della sua convenienza. 
Dagli Sforza è passato al servizio degli Aragona e poi a quello dei francesi, ingaggiato con una cifra da capogiro per guidare le loro truppe contro il ducato di Milano.
Dopo la cacciata di Ludovico il Moro è stato nominato da Luigi XII Maresciallo di Francia e Governatore di Milano. 
Ora che è arrivato al potere e che ha consolidato, come meglio non si potrebbe, i suoi possedimenti e le sue finanze vuole rappresentare negli arazzi gli effetti del suo buon governo e convincere i più scettici che, grazie alla protezione dei Francesi, Milano si appresta a vivere una nuova età dell'oro.
Bramantino ha capito bene i suoi intenti e, nelle scene ricche di riferimenti classici che ha disegnato per lui, gli fornisce le immagini che desidera.
A gennaio Giano con la sua grande chiave celebra la pace, chiudendo le porte del tempio; per le strade si improvvisano danze carnevalesche, dimenticando le paure della guerra e i rigori della stagione.
Anche se la realtà è ben diversa nelle sale del suo lussuoso palazzo guardando  gli arazzi come quelli che i più ricchi si possono permettere, Gian Giacomo Trivulzio può continuare a sognare.





Un approfondimento dell'iconografia e delle vicende storiche degli arazzi è in G.Agosti e J.Stoppa, I Mesi del Bramantino, ed.Officina Libraria 2012