martedì 22 dicembre 2015

I tappeti delle meraviglie di Faig Ahmed




In questi giorni in cui si avverte dappertutto l'atmosfera delle feste, ho deciso di rivestire il blog, se non di decorazioni natalizie, almeno di immagini piene di vivacità e di colori: quelle dei variopinti e sorprendenti tappeti di Faig Ahmed.
E mai come stavolta le immagini parlano da sole:



Un artista azero, nato a Baku nel 1982, la lavorazione dei tappeti dell'Azerbaijan, talmente famosa da ricevere il riconoscimento dell'Unesco per le tradizioni immateriali, una squadra di tessitori abilissimi e, in più, la voglia di stravolgere e di innovare antichi modelli: sono questi gli elementi che si mescolano, come fili colorati, nei tappeti creati da Faig Ahmed.




Fin da quando ha esposto nel padiglione dell'Azerbaijan alla Biennale di Venezia nel 2007, Faig Ahmed ha deciso di prendere come punto di partenza l'arte antichissima della tessitura del suo paese.
Per creare le sue opere, incerte tra arazzi e sculture, ha pensato di stravolgere e destrutturare i tipici motivi ornamentali dei tappeti azeri, tramandati sempre uguali per generazioni, elaborandoli a computer e mescolandoli, a volte, con schemi decorativi di altre aree geografiche. 
Per realizzare i tappeti trasporta, poi, i suoi disegni digitali su cartoni a grandezza naturale e li usa come modello per farli tessere a un gruppo di esperti artigiani che utilizzano lane pregiate e antichi telai.
Ed ecco che, manipolando e sconvolgendo le decorazioni più consuete grazie alle moderne tecniche di design, crea nuove composizioni che, per esempio, possono ingannare gli occhi con illusorie definizioni dello spazio fino a sembrare quasi tridimensionali.





Oppure riesce a distorcere le forme che gonfiano o lievitano in maniera imprevedibile 




Quando non arriva a trasfigurare i colori, cambiando la dominante del fondo, come fossero usciti da una stampante che stia per finire l'inchiostro







se non trasforma, addirittura, i fili in cascate liquide che sembrano scorrere verso terra trascinando con se ogni disegno 




"Amo essere ostaggio della tradizione: è un test a cui devo sottopormi per sentirmi libero":- afferma Faig Ahmed che, unendo memoria e modernità, lavoro manuale e progettazione, trasforma i suoi tappeti in stupefacenti opere d'arte




Sempre con la voglia di cambiare, anche se nel rispetto di quello che è stato elaborato nel corso dei secoli.




Tappeti magici, dunque, che uniscono modernità e tradizione millenaria e che, col fascino dei loro colori e quel pizzico di ironia che non guasta mai, ci fanno riflettere sul nostro rapporto col passato e sulla capacità di viverlo e di trasformarlo senza distruggerlo.






Per chi vuole saperne di più qui è il link al sito dell'artista: http://www.faigahmed.com/
Qui un articolo da cui ho tratto l'idea e molte delle foto e qui un'intervista in cui parla del suo lavoro: http://ilmanifesto.info/il-mondo-in-un-tappeto/

martedì 1 dicembre 2015

I Mesi degli Arazzi Trivulzio: dicembre




Undici mesi di questo 2015 sono già passati e siamo ormai arrivati al dodicesimo: dicembre 
Non ci resta, dunque, che andare a vedere cosa raffiguri l'ultima scena del calendario che ci ha fatto compagnia per tutto quest'anno: gli arazzi con il Ciclo dei Mesi ora conservati al Castello Sforzesco di Milano, commissionati agli inizi del Cinquecento da Gian Giacomo Trivulzio, all'epoca governatore della città ed eseguiti dalla manifattura di Vigevano, sotto la guida di Benedetto da Milano su disegno di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1460 ca-1530).
Ed ecco allora come appare dicembre:



La scena, come al solito, è circondata da una cornice con gli stemmi dei Trivulzio e della famiglie ad essi imparentate.
In alto, al centro, appare il grande stemma dei Trivulzio, a sinistra compare il sole, mentre a destra è visibile la rappresentazione del segno zodiacale del mese: il Capricorno.
Nel cartiglio in basso sono descritte le caratteristiche di dicembre: "Gaudere parto cum grege / casa frui ucupet et sues / salire prolis ingerit / December operam inertibus Dicembre dà il modo di rallegrarsi in casa per il gregge appena nato e per l'uccellagione, fa salare il porco e dà da fare ai bambini oziosi"
"In casa": dice, dunque, l'iscrizione. 
E in effetti anche la scena dell'arazzo si svolge al riparo dal freddo dell'inverno, nel chiuso di una grande sala, coperta da volte a botte e con un pavimento ornato da riquadri colorati, mentre, all'esterno, gli alberi sono spogli e solo pochi passanti si aggirano tra i grandi edifici dominati dalle montagne sullo sfondo. 
All'interno, invece, è tutto un via vai di gente, servi e contadini, che sembrano per lo più occupati nelle fasi della macellazione del maiale, l'attività tipica del mese, di cui, però, Bramantino, nei suoi disegni per l'arazzo, ci ha risparmiato i particolari più cruenti. 



Al centro, in basso, sopra un fuoco tenuto vivo da un servo inginocchiato, in un grande pentolone con due mestoli appesi, cuociono le carni destinate alla confezione di salumi e salsicce.
A  destra, due maiali selvatici si stanno avvicinando a un trogolo pieno di ghiande mentre, lì accanto, un servo è già pronto con la grande mazza che servirà a stordirli prima dell'uccisione.
A sinistra, un uomo è occupato a gonfiare le vesciche di maiale, che serviranno poi a contenere lo strutto, come fossero palloncini per divertire i bambini.
In basso, sul pavimento, insieme a una distesa di frutta e verdura di stagione - rape, pere e mele - compare una piccola sedia, una cosiddetta "comoda", destinata ai bisogni dei più piccoli.

In secondo piano, continua l'animazione con tutta una serie di persone che passano, trasportano i maiali o levano in alto coppe piene di vino o, forse, del sangue riservato ai sanguinacci.
L'atmosfera sembra febbrile, quasi si stesse preparando una festa o un rito: in effetti Bramantino, come sempre, mescola elementi tratti dalle attività agricole a quelli ripresi dalla cultura classica. 
E, in questo caso, l'allusione è alle feste dei Saturnali che si celebravano nell'antica Roma tra il 17 e il 21 dicembre, tra banchetti, cortei, licenze e libertà di comportamento. 


Se guardiamo bene,vediamo che il mese stesso, raffigurato come un uomo vecchio che sorregge un falcetto e con i piedi legati da una robusta  corda, è niente di meno che la personificazione di Saturno. 
Secondo la tradizione, nelle feste del mese di dicembre si liberava il dio che doveva riportare sulla terra l'età dell'oro, o meglio, il "beato disordine" dei tempi, in cui  gli dei si mescolavano agli uomini. 
Per il resto dell'anno, per il suo potenziale sovversivo, Saturno rimaneva imprigionato con le caviglie legate da lacci di lana, i cosiddetti "compedes", e veniva liberato solo nei giorni della sua festa, in cui era costume non solo scambiarsi doni ma anche i ruoli tanto che nei banchetti gli schiavi venivano serviti dai padroni.


In questa atmosfera di festa e di gioiosa allegria, i mesi variopinti degli arazzi, voluti da Gian Giacomo Trivulzio per celebrare la "nuova età dell'oro" rappresentata dalla sua signoria sulla città, prendono congedo

Il 2016 è alle porte e per l'anno nuovo, ovviamente, calendario nuovo! 





Un approfondimento delle vicende storiche e dell'iconografia degli arazzi è in:
G.Agosti e J.Stoppa, I Mesi del Bramantino, ed.Officina libraria 2002


venerdì 13 novembre 2015

Il mondo parallelo di Rodney Smith




Se c'è una qualità di cui non si ha mai abbastanza è la leggerezza, quella che, come voleva il grande Italo Calvino, non è mai da confondere con la superficialità, né con la sventatezza.
Ed è proprio la leggerezza alla Calvino quella che contraddistingue le foto di Rodney Smith, un grande fotografo americano nato nel 1947, autore di libri, protagonista di mostre e docente universitario. 
Insomma, un fotografo più che famoso, ma che io ho scoperto quasi per caso in questi giorni, mentre navigavo nel grande mare di internet e sentivo, come non mai, il bisogno di distrarmi da quello che succede intorno.
Le sue foto, per lo più in bianco e nero, rigidamente su pellicola e senza alcuna manipolazione digitali, mi sono parse da subito capaci di trasportarmi, quasi per magia, in un suo mondo parallelo, reale e irreale insieme, un mondo a parte, influenzato dal surrealismo e, soprattutto, dalla pittura di René Magritte.

A partire dall'abbigliamento dei suoi personaggi spesso in doppio petto e cappello, impeccabili anche quando spuntano tra le piante di un campo, armati di grandi cesoie


E anche quando si arrampicano su una scala, sempre con grande signorilità, per spiare oltre una siepe


oppure quando, come in un fumetto, cercano di vedere cosa succede dall'altra parte, infilando la testa tra le foglie



e, addirittura, quando, quasi completamente interrati, ma - si suppone- con lo stesso aplomb lasciano intravedere solo lucidi e  pulitissimi stivali.


Quelle di Rodney Smith sono sempre immagini fuori dal tempo, dal frastuono dell'attualità e delle mode passeggere. 
"La musica di oggi è discordante - afferma in un'intervista- l'arte, concettuale o meno, mi sembra volgare; la cultura è poco raffinata, manca di stile e di grazia... Il mondo delle mie fotografie è un mondo fuori del quotidiano: ci obbliga ad aspirare a qualcosa di più e a ricercare la civiltà e il garbo di un sorriso".
Ecco, è proprio il dono di un sorriso quello che Rodney Smith ci regala con immagini che, come questa del 2001 intitolata "Uomini con due scatole in testa", sembrano uscite da un film dei fratelli Marx o del primo Woody Allen


oppure come questa  di strani duellanti che si sfidano, in mezzo all'erba, a colpi di fotografie 


o di questi due cacciatori di farfalle che corrono dietro alle loro lievi prede con abiti bianchi e retini dall'aria ottocentesca


Certamente, in tutti i casi, si tratta di immagini raffinate che rimandanocome ammette lo stesso Rodney Smith, ai grandi maestri della fotografia, da Alfred Stieglitz a Henri Cartier Bresson, se non addirittura alla pittura dell'Ottocento o alla stilizzazione di certe stampe giapponesi.
Basta guardarle una dietro l'altra per lasciarsi affascinare dal misto di ironia e di levità dei suoi personaggi che possono ricordare protagonisti del cinema muto tra Harold Lloyd o Buster Keaton, come questo uomo che quasi  sparisce dietro un megafono


o  questo robusto signore che, in questa foto del 2001, intitolata "Un esercizio molto lento" sembra decisamente poco disposto al movimento 



E che dire poi di questa elegante signora che, nella foto del 2011 intitolata "Viktoria sotto il paralume", sorregge con classe niente di meno un abat-jour?


o di questo incauto passeggero che sembra essersi spinto decisamente troppo oltre


oppure di questo raffinato  gruppo di signori alla moda che, in una foto del 1995, ricompone, come in un balletto, lo "Skyline dall'Hudson River" di New York



L'impressione è  Rodney Smith si diverta spesso a giocare con le nostre sensazioni, cambiando le carte in tavola e spingendoci a guardare la realtà da un altro punto di vista, magari attraverso una lente di ingrandimento


oppure, come uno dei suoi personaggi in questa foto del 2012, arroccati in cima a una scala con un binocolo



L'intento sembra quello di sovvertire i luoghi comuni, di divertirci e di divertirsi a immaginare quanto può essere diverso il mondo se, come in questo autoritratto che tanto somiglia Magritte, lo si osserva non attraverso una macchina fotografica, ma attraverso una fotografia.





Chi vuole saperne di più sul concetto di fotografia di Rodney Smith può visitare il suo sito (qui è il link) o leggere una delle sue interviste (qui) 
Un video con altre foto di Rodney Smith è qui 



domenica 1 novembre 2015

I Mesi degli Arazzi Trivulzio: novembre



Sembra ieri che l’anno è cominciato e, invece, siamo già a novembre, il nono mese secondo il calendario romano da cui ha preso il nome.
È, dunque, arrivato il momento di guardare cosa ci riserva la penultima scena del calendario che ho scelto per quest’anno: gli arazzi con il Ciclo dei Mesi ora conservati nel Castello Sforzesco di Milano, commissionati agli inizi del Cinquecento, da Gian Giacomo Trivulzio, all'epoca governatore della città, alla manifattura di Vigevano ed eseguiti su disegno di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1460 ca- 1530).
Ed ecco, come appare il novembre di cinque secoli fa


Come succede in tutti gli altri arazzi, la scena è circondata da una cornice con gli stemmi dei Trivulzio e delle famiglie ad essi imparentate. 

In alto, al centro, appare il grande stemma dei Trivulzio, a sinistra è raffigurato il sole, mentre a destra compare la rappresentazione del segno zodiacale del mese: il Sagittario.
Nel cartiglio in basso, sorretto non da un'ara classica come negli altri Mesi, ma da un paiolo di rame ricolmo di polenta chiara, una scritta illustra le caratteristiche di novembre:
"Prata innovat olae cavet/ capris coire dat legit/ glandem arbors lina apparat/ november arma et rustica Novembre rinnova i prati; cura l'olivo, fa accoppiare le capre, raccoglie la ghianda della quercia, prepara il lino e gli strumenti agricoli

Al centro, seduto su un tavolaccio, il Mese è raffigurato come un burbero fattore, vestito di abiti pesanti, con i lineamenti grossolani e tanto di pappagorgia che, con un gesto imperioso della mano, dirige una serie di attività legate al mese.
In primo piano, seduti su un tappeto a scacchi colorati, dei bambini vestiti all'antica bevono il latte da delle scodelle o accorrono verso un uomo e una donna che sembrano distribuire loro le scarpe necessarie all'inverno, mentre un'altra donna avanza portando sulla testa un paniere pieno di zoccoli di legno. 
A sinistra, un gruppo di uomini in corte tuniche completate, a volte, da calzabraghe aderenti, si occupa della fabbricazione degli strumenti agricoli dalle vanghe, alle asce, ai forconi e della costruzione dei carri, come dimostrano le due sezioni di ruota che giacciono sul pavimento.
La parte destra  è tutta occupata dalla rappresentazione delle fasi della faticosa lavorazione del lino: gli steli delle piante, già sottoposti a macerazione, una volta essiccati, vengono battuti con uno strumento apposito per liberare le fibre dalle parti legnose. 
Le fibre vengono poi pettinate con pettini dai denti via via più fitti per sciogliere i nodi, in modo da ripulirle il più possibile prima di essere filate.

Come sempre, Bramantino, si mostra ben informato sulle attività agricole, anche se con la sua accesa immaginazione, la sua passione per gli scorci prospettici o le sue ambientazioni all'antica, le sa trasfigurare, trasformandole in scene senza tempo dove elementi realistici si mescolano a elementi di fantasia. 
Così i contadini di Novembre compiono i lavori tipici del mese non all'aperto, ma in un improbabile ampio salone, dove, attraverso un arco, si intravedono gli edifici di una città, mentre, in alto, il sole pallido e malinconico che illumina la scena annuncia già l'arrivo dell'inverno.





Un approfondimento delle vicende storiche e  dell'iconografia degli arazzi è in G.Agosti e J.Stoppa, I Mesi del Bramantino, ed. Officina libraria 2002

giovedì 1 ottobre 2015

I Mesi degli Arazzi Trivulzio: ottobre




Siamo in ottobre, il decimo mese dell'anno, l'ottavo secondo il calendario romano, da cui ha preso il nome. 
Vediamo, dunque, cosa ci riserva questo mese, in cui domina ormai l'autunno, nel calendario che ho scelto per quest'anno: gli arazzi con il Ciclo dei Mesi, attualmente conservati al Castello sforzesco di Milano.
I dodici grandi arazzi (larghi più o meno cinque metri) furono commissionati agli inizi del Cinquecento, da Gian Giacomo Trivulzio, all'epoca governatore di Milano, alla manifattura di Vigevano ed eseguiti su disegno di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1460 ca- 1530).
Ed ecco, allora, l'ottobre di cinque secoli fa


Come sempre, la scena è circondata da una cornice con gli stemmi dei Trivulzio e delle famiglie ad essi imparentate. 
In alto, al centro, appare il grande stemma dei Trivulzio, a sinistra è raffigurato il sole, mentre a destra c'è la rappresentazione congiunta dei due segni zodiacali del mese: Bilancia e Scorpione.
Nel cartiglio in basso al centro una scritta illustra le caratteristiche del mese: "Frumenta terra reddere/ stabilisce, apibus et vineis / cavere pomisqe inseri/ October arborem et monet: Ottobre spinge a restituire il grano alla terra, a provvedere alle stalle, alle api e alle vigne e anche a innestare gli alberi". 
Il mese, che nella scritta appare ancora pieno di attività agricole con la terra che non ha ancora cessato di dare frutti, è rappresentato come un uomo maturo vestito di rosso, un fattore che amministra, con oculatezza, le sue terre.

Seduto a un tavolo, tra i libri e un calamaio, sorregge sulle spalle un bastone a cui sono legate due chiavi e, con la mano sinistra, indica il sole, mentre, con la destra, sorregge un grande registro aperto su una pagine in cui è scritto: "Vanoto da Monça de dare per seme de fromento i(m)p(re)stato a dí 10 de otobre III" . 
Il registro non è affatto opera di fantasia: Bramantino probabilmente ha avuto occasione di accedere davvero ai registri relativi ai possedimenti del Trivulzio e si è appuntato i dati di un vero documento: Giovanni da Monza (Vanoto de Monça), attestato mentre sta ripagando le sementi che ha ricevuto in anticipo, figura nei documenti come un fittavolo di Gian Giacomo Trivulzio fino dal 1506. Un elemento preciso e reale, dunque, che l'artista mescola al suo gusto per le ambientazioni fantastiche, i richiami alla classicità e gli scorci prospettici.



La scena si svolge in una sala con un pavimento a scacchi colorati e un loggiato aperto sull'esterno.
A sinistra avanzano tre contadini, uno porta un setaccio, un altro delle pere, mentre il terzo guarda verso lo spettatore. 
A destra, invece, ci sono tre donne, una arriva con un grande cesto di nespole sulla testa, la seconda regge un mazzo di carote e la terza indica la personificazione del mese.
Sullo sfondo, sosta un altro folto gruppo di contadini, mentre dal loggiato si intravedono due alberi ormai privi di foglie.
In primo piano, sono ben visibili quattro panieri che formano una sorta di natura morta autunnale, pieni come sono dei prodotti agricoli del mese, da una parte pere e mele cotogne, dall'altra carote e rape: la prova che l'autunno è ancora un buon periodo per i raccolti e che ottobre può dirsi un mese di abbondanza. 
Anche il committente degli arazzi, Gian Giacomo Trivulzio, probabilmente si ritiene soddisfatto di una rappresentazione che dimostra come le sue terre siano floride e  i contadini ben preparati ad affrontare i rigori dell'inverno.







domenica 13 settembre 2015

Il "Ritratto di Van Gogh" di Henri Toulouse-Lautrec



Se è vero che tutti i ritratti raccontano una storia, quella che racconta il "Ritratto di Van Gogh" (pastello su carta, 54x45), ora al Museo Van Gogh di Amsterdam, realizzato da Henri Toulouse-Lautrec nel 1887, è, soprattutto, una storia di amicizia. Una bella amicizia.



Quando i due artisti si incontrano nel 1886 nello studio del pittore Fernand Cormon, uno ha ventidue anni e l'altro trentatré. 
Il più giovane, Henri Toulouse-Lautrec è un aristocratico, discendente da una delle più antiche famiglie di Francia. A Parigi, dove è arrivato da tempo e dove ha frequentato le scuole migliori, ha trovato conferma alla sua vocazione per la pittura. 
Della carriera militare che il padre aveva sognato per lui, non se ne è fatto di nulla.
Una malattia congenita, con l'aggravante di una caduta da cavallo, gli ha causato una vera e propria deformità fisica: il busto è normale, ma le gambe sono rimaste quelle di un bambino.
"È così piccolo che dà le vertigini":- è la battuta che circola tra i più maligni. 
Ma lui alle battute ci è abituato e riesce a non mostrarsi ferito: cerca di rimanere imperturbabile - sempre elegante nei modi  come nel vestire - e di rispondere con un'ironia feroce che arriva fino al sarcasmo.
Fernand Cormon non ha molta fiducia nelle sue doti: va dicendo a tutti che può diventare  un buon disegnatore o un caricaturista, ma non un artista con la A maiuscola.
Toulouse-Lautrec, comunque, è sicuro di quello che vuole e prosegue caparbiamente per la sua strada.

Anche Vincent Van Gogh, che frequenta l'atelier di Cormon per approfondire lo studio del nudo e dell'anatomia, è convinto che la pittura sia la sua vita. 
Dopo aver provato vari mestieri e dopo aver cercato di realizzare la sua vocazione religiosa facendo il predicatore, si è persuaso che solo nella pittura potrà trovare una pausa alle sue inquietudini e realizzare tutte le sue aspirazioni. 
È arrivato a Parigi nel marzo 1886 ed è ospite del fratello Theo, che, come sempre, gli passa un piccolo sussidio, con cui riesce, bene o male a sopravvivere.
Parla bene francese, anche se non ha perso la pronuncia gutturale del suo olandese originario, ma non ha certo la finezza d'espressione, né lo spirito di Lautrec. 
In genere è piuttosto silenzioso, quasi scontroso. Di vestire bene e di frequentare il gran mondo non gli interessa: vuole solo esercitarsi, imparare e capire fin dove può arrivare.

due, apparentemente, non potrebbero essere più diversi.
E, invece, qualcosa li unisce: oltre all'amore inesauribile per la pittura, condividono la stessa sofferenza, l'uno per la sua fragilitá fisica, l'altro per quella mentale, che, come una ferita aperta, li isola dagli altri e li condanna alla solitudine. 
Fin dall'inizio si sono capiti e sanno che, quando sono insieme, non hanno bisogno di parlare di se stessi.
I discorsi che condividono sono quelli sull'arte. E c'è da immaginare che le loro discussioni inizino nell'atelier di Cormon, per proseguire, fino a notte fonda, al tavolo di qualche caffè, magari di fronte a un bicchiere di assenzio. L'assenzio, la cosiddetta "fata verde", la bevanda che stordisce e che consola, è diventata per tutt'e due un'abitudine, di cui non riescono a fare a meno.

Ed è proprio con l'immancabile bicchiere d'assenzio che Lautrec ritrae l'amico, mentre, con  il viso smunto e i capelli rossi, perso tra i suoi pensieri, fissa un punto indistinto davanti a se, solo e chiuso nelle sue preoccupazioni.
Un'immagine malinconica e, allo stesso tempo, partecipe e affettuosa, per cui Lautrec ha adottato, in segno di omaggio, uno stile più vicino possibile a quello di Van Gogh.
Un'immagine, dove è riuscito a cogliere  tutta la profondità di una personalità tormentata e a fornire la testimonianza di una grande consonanza di emozioni e di sentimenti.
Del legame che traspare da questo ritratto non restano documenti scritti. 
C'è, però, un episodio successivo che attesta quanto fosse forte.

Nel gennaio del 1890, per l'apertura del "Salon des XX" a Bruxelles, Theo è riuscito a far pervenire da Parigi  due dipinti del fratello. 
Quei quadri così violenti e tormentati più che emozionare, come Theo sperava, scandalizzano non solo il pubblico, ma anche gli artisti. 
Un pittore simbolista belga, all'epoca piuttosto noto, Henri De Greux, non appena li ha visti, ha cominciato a urlare che lui non accetterà mai di esporre i suoi dipinti insieme a quella pittura "esecrabile". 
Lo grida più volte e nessuno lo zittisce, nemmeno quando, durante il pranzo ufficiale prima dell'inaugurazione, minaccia di ritirare le sue opere; anzi, qualcuno comincia perfino a dargli ragione. 
"Esecrabile" è una parola troppo forte da sopportare per Toulouse Lautrec, che là, seduto a quel tavolo, lo ascolta e probabilmente ripensa a quell'amico così fragile, alle loro discussioni notturne, alla sua fatica di dipingere, al suo impegno, alla voglia di dare in ogni sua opera qualcosa di sé. 
E, soprattutto, a quella pittura che ammira tanto e che per lui rappresenta un modello.
No, non lascerà che Van Gogh sia offeso. Le parole, però, proprio allora gli vengono meno.
A quel punto, tira fuori tutto il suo coraggio e sfida De Greux a duello.
È una decisione azzardata, ma è pronto a portarla fino in fondo. 
Quel duello non si farà, perché De Greux preferirà scusarsi, ma, intanto, Lautrec ha ottenuto lo scopo di far cessare gli insulti e di far sì che quella pittura strana e intensa riceva l'attenzione che si merita.

Non sappiamo quale sia stata la reazione di Van Gogh alla difesa di Lautrec; sappiamo però che i due si incontrano, ancora una volta, circa sei mesi dopo, il 6 luglio del 1890, quando Van Gogh passa per un giorno da Parigi per vedere il fratello. Vive, allora, a Auvers-sur-Oise, dove si è rifugiato dopo il periodo turbolento passato ad Arles e dove ancora alterna momenti di entusiasmo a crisi di depressione. 
Sarà l'ultima volta in cui si vedranno.
Pochi giorni dopo Van Gogh si toglierà la vita. 
Toulouse- Lautrec, invece, continuerà la sua. 
Sarà  pittore - e un grande pittore come aveva sempre voluto - ma sarà anche inseguito dai suoi fantasmi e dalla sua sofferenza, fino alla morte, nel 1901, ad appena trentasette anni.





martedì 1 settembre 2015

I Mesi degli Arazzi Trivulzio: settembre




Siamo già a settembre ed è arrivato il momento di vedere cosa ci riserva il mese nel calendario che ho deciso di "sfogliare" quest'anno: gli arazzi con il Ciclo dei mesi, attualmente conservati al Castello Sforzesco di Milano.
I dodici grandi arazzi furono commissionati, agli inizi del Cinquecento, dall'allora governatore di Milano Gian Giacomo Trivulzio ed eseguiti dalla manifattura di Vigevano su disegno di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1465 ca-1530).
Ecco, dunque, come appare, tessuto nei colori variopinti dell'arazzo, il mese di settembre di cinque secoli fa:


La scena, in gran parte danneggiata e restaurata, è inquadrata, come al solito, da una cornice con gli stemmi dei Trivulzio e delle famiglie ad essi imparentate ed è sormontata, al centro, dal grande stemma dei Trivulzio. 
A sinistra, compare la raffigurazione del Sole, mentre a destra, i segni zodiacali del mese, Scorpione (al posto della Vergine) e Bilancia, sono fusi in un'unica rappresentazione.
Come negli altri arazzi del ciclo, al centro in basso, nella parte anteriore del basamento, si legge un'iscrizione che descrive le caratteristiche del mese: "September uvas ut coquit/vina et parat dat aucuopi/ gratas voluptates bona/ et mensium recolligit: settembre, come fa maturare le uva, così prepara anche i vini, dà all'uccellatore  gradite soddisfazioni e raccoglie i buoni frutti di mesi”.

In un'epoca ancora legata ai tempi e ai ritmi delle attività agricole, il protagonista del mese non può essere che il vino.
In effetti, la personificazione di Settembre come un giovane nudo con i sandali rossi, grappoli d’uva in testa e i fianchi cinti da un ramo di vite  richiama le antiche rappresentazioni del dio Bacco.
Non bastasse, tutta la scena è dominata, da un gigantesco torchio vinario di legno, lo strumento indispensabile per la spremitura dell'uva, che, nell'interpretazione di Bramantino, diventa un'enorme struttura architettonica collocata in una sorta di piazza con un pavimento a scacchi variopinti.
Al centro, la grande vite del torchio è fatta ruotare da quattro improbabili contadini vestiti con corte tuniche all'antica. 

Anche in secondo piano sono rappresentate attività legate alla produzione del vino. 
L'uva arriva, a sinistra, caricata su un carro guidato da buoi ed è fatta defluire, attraverso uno scivolo, dentro una grande vasca. 
destra, alcuni giovani, sporchi del rosso del mosto, si occupano della pigiatura del vino e delle botti. 

Alle due estremità, invece, sono seduti una donna e un uomo in abiti signorili: lei tiene in mano un grappolo d'uva, mentre lui regge un falco addestrato per la caccia.
Anche se l'arazzo è rovinato e  alterato, proprio nella figura maschile, l'ipotesi è che si tratti del committente della serie, Gian Giacomo Trivulzio e della moglie Beatrice d'Avalos.
All'epoca, in effetti, non è raro, che i nobili signori assistano a una delle occupazioni agricole   più importanti dell'anno.
La vendemmia e la pigiatura del mosto coinvolgono tutti e, generalmente, finiscono con una delle poche feste, in cui i contadini possono riposare dalla fatica quotidiana e rallegrarsi che il vino nuovo possa essere un segno di abbondanza e di prosperità.







Un approfondimento delle vicende storiche  e dell'iconografia degli arazzi è in G.Agosti e J.Stoppa, I Mesi del Bramantino, ed. Officina libraria 2012


giovedì 27 agosto 2015

I colori degli uccelli: "The Birds of America" di John James Audubon




Due girifalchi bianchi su uno sfondo di cielo blu in questo acquerello (cm 95x64) conservato alla New York historical society: un'immagine vivida e potente, sospesa tra accuratezza scientifica e poesia.


L'autore, John James Audubon (1785-1851), è di quelli che hanno dietro una storia. Ed è una gran bella storia.
Nato ad Haiti, figlio illegittimo di un ufficiale della marina, si trasferisce col padre in Francia, dove apprende i primi rudimenti di pittura nell'atelier di Jacques-Louis David. 
Ma la sua passione è un'altra: forse memore delle teorie di Rousseau del ritorno alla natura ma, soprattutto, grande camminatore, si inoltra tutti i giorni nelle campagne e nei boschi, col suo taccuino di schizzi, per osservare il mondo degli uccelli, un mondo che lo appassiona sempre di più, fino a diventare per lui una sorta di ossessione.
Nel 1803, appena diciottenne, si imbarca per Stati Uniti per evitare l'arruolamento nell'esercito napoleonico. 
I primi tempi nel suo nuovo paese non sono facili: il mondo degli affari non è fatto per lui, tanto che inanella una serie di fallimenti che culminano in un soggiorno in carcere per debiti. 
Ne esce  solo con quello che ha indosso, ma con i suoi pennelli e i suoi album da disegno. 
Ed ecco che, con l'aiuto della moglie, concepisce un progetto che tenga conto della sua abilità di disegnatore e della sua passione per gli uccelli.

Decide di illustrare, in un modo più preciso e attento al naturale di quanto si fosse fatto fino ad allora, tutti gli uccelli viventi del Nord America e, in più, a grandezza reale: un compito immenso che, da allora in poi, occuperà gran parte della sua vita.
Nel 1820 sale su una barca sul fiume Ohio per dirigersi verso il Western Kentucky, la "frontiera" di allora, e parte per la sua grande avventura. 
I pittori che fino ad allora avevano raffigurato gli uccelli dipingevano per lo più i loro soggetti impagliati  e montati su trespoli. 
Anche Audubon, in caso di necessità, non ha scrupoli a uccidere e impagliare uccelli per sezionarli e studiarli.  Ma non è ciò che vuole: la sua idea è piuttosto quella di raffigurare le sue amate creature dei cieli dal vivo, cogliendole nel momento in cui sono in azione, mentre cercano il cibo, cacciano o si dispongono per il volo. 
Un progetto non facile che esige, oltre a un grande talento, ore e ore di osservazione da vicino (il binocolo farà la sua comparsa solo intorno al 1850) e lunghi appostamenti e  che gli impone, da allora in poi, una vita da nomade. 
Percorre, dunque, con nient'altro che i suoi materiali di artista e, beninteso, il suo fucile, un territorio sterminato dall'Ohio alla Florida alla Louisiana, seguendo il corso dei fiumi con la piroga, camminando o cavalcando tra  boschi e praterie, dalle montagne alla costa.
La sua idea è quella di ritrarre gli uccelli, in acquarelli enormi (che arrivano fino a un metro per sessantacinque). Li farà poi incidere su lastre di rame  e stampare sui fogli più grandi prodotti all'epoca, ritoccandone i colori a mano.
Finanziare una simile impresa non è facile: Audubon, dopo aver cercato invano di trovare fondi negli Stati Uniti, parte nel 1826 per l'Inghilterra.
Là, con la sua aria spavalda riesce ad affascinare un paese dove l'ultimo libro di James  Fenimore Cooper sui "Pionieri" va a ruba e  dove i più lo vedono come un romantico eroe da romanzo. 
Con la sua giacca di pelle di daino e i capelli lunghi fino alle spalle sembra l'incarnazione dell'America selvaggia. 
Nelle sue conferenze delizia  il pubblico con i suoi racconti  che vengono riproposti a puntate sui quotidiani. 
Quegli inglesi abituati alla città o a campagne ridisegnate dall'uomo si stupiscono di fronte a quelle avventure di viaggio, alla narrazioni di lotte con i lupi, di duelli con gli indiani di notti all'addiaccio, ma anche di incontri con cacciatori, con legnaioli o con balenieri.
Ma soprattutto restano ammaliati da quelle immagini di uccelli strani e bellissimi che sembravano usciti da un mondo selvaggio e alieno. 
Come questo "Pink Flamingo":


Insomma, la trasferta inglese è un successo: là raccoglie i fondi che gli consentono di arrivare, dopo quasi vent'anni di lavoro, a pubblicare, nel 1830, "The Birds of America":  quattro volumi con ben 453 tavole con la raffigurazione quasi cinquecento specie nell'inusuale formato  di 100x70.
Ed ecco che in quella, che è subito definita come la più grande enciclopedia ornitologica illustrata, aironi, girifalchi, gru, pappagalli colorati, cigni o picchi  sembrano riprendere vita. 


Audubon è stato capace di cogliere la natura di ognuno di loro e di catturarne qualsiasi azione, si tratti di un'aquila che piomba in volo su una lepre, di un colibrì che succhia il nettare di un fiore o di un gruppo di colorati pappagalli appollaiati sui rami.



Con la sua abilità ha trasformato l'illustrazione ornitologica in una sorta di ritratti di uccelli. Lavorando sulla luce e sulle velature dell'acquerello, usando pastelli, pigmenti metallici e inchiostri differenti, è riuscito a fissare per sempre brevi istanti della vita di quelle creature libere e fragili. 
"La mia scuola furono i campi e le foreste": sostiene Audubon, ma intanto, si mostra informato sulle ultime tendenze artistiche, tanto che il taglio asimmetrico di qualche sua immagine sembra addirittura  tener conto di quelle stampe giapponesi che cominciano a circolare in Europa.
Al confine tra scienza e arte, le sue  tavole, dai colori intensi e luminosi, con i corpi di uccelli impregnati da quella che Audubon chiama "la dolcezza del piumaggio", formano una sorta di poema figurato.
Un poema che oggi ripercorriamo col rimpianto per un tempo, in cui non si immaginava che buona parte di quelle specie si sarebbero estinta, in cui i cieli, i boschi e le campagne erano percorsi dai voli  e risuonavano di cinguettii e in cui la natura, anche se iniziava a subire le prime offese, era ancora in gran parte intatta.





Gli acquerelli di Audubon, che ho conosciuto grazie al blog di un'amica (qui), sono conservati  alla New York Historical Society of America. I 119 esemplari della prima edizione del suo libro per lo più sono conservati in istituzioni pubbliche: qui è un link dove se ne possono scorrere le illustrazioni. 
I rari che sono sul mercato hanno raggiunto quotazioni altissime: uno è stato battuto in asta per 11,5 milioni di dollari qualificandosi come il libro più caro al mondo (qui). La  National Audubon Socitey (qui) creata dopo la sua morte, è diventata un pilastro della difesa del territorio