mercoledì 27 agosto 2014

Il talismano di Carlo Magno



Un abbagliante pendente, databile al IX secolo, in filigrana d’oro con, al centro, nella parte anteriore, uno zaffiro ovale, tagliato a cabuchon, dal quale si vede, in trasparenza, una reliquia. 
Intorno, inserite nell'oro, lavorato a filigrana e granulazione, su tutt'e due le facce, ben cinquantatré pietre preziose montate in funzione della loro forma e del loro colore, tra cui si riconoscono perle, granati, ametiste  e smeraldi.



Sul verso si ripete lo stesso tipo di decorazione, ma lo zaffiro originale è rimpiazzato da un vetro più scuro:




Un gioiello, straordinario, la cui scia dorata attraversa tutta la storia d'Europa, a tal punto che le sue vicende potrebbero essere la trama di un film, in cui scene e costumi cambino continuamente. 


Il primo atto si apre nell'anno Mille ad Aquisgrana, nella Cappella Palatina.
Ottone III, imperatore del Sacro Romano impero, è arrivato lì per esumare il corpo di Carlo Magno, morto in una fredda notte d'inverno di due secoli prima.
La scena che gli si presenta davanti è impressionante: il corpo del grande Carlo sembra ancora intatto, seduto, con la schiena eretta, la corona e lo scettro e, come avviene per i Santi, pare emanare un profumo intensissimo.
Tutti ne sono turbati, ma Ottone III non ha esitazioni: dopo aver prelevato alcune reliquie porta via con sé  il medaglione che Carlo Magno aveva sul petto (per chi voglia approfondire qui è un link).
Un gioiello preziosissimo che si diceva fosse un regalo del favoloso califfo di Badgad, Harun al-Raschid (niente di meno che il futuro protagonista delle "Mille e una notte").
L'ambasceria, inviata da Carlo Magno, era tornata ad Aquisgrana carica di regali di uno splendore mai visto: le chiavi del Santo Sepolcro, una scimitarra dorata, un orologio a acqua, tappeti, tessuti, scimmie, leopardi e perfino l'elefante di cui ho parlato qui.
Tra quei doni c’era anche un magico medaglione ornato da uno zaffiro, la pietra a cui si attribuiva il potere di vincere ogni inganno. 
Devozione e superstizione all'epoca si mescolano: Carlo Magno si convince che l'influsso benefico della pietra sarà accresciuto dalle rarissime reliquie del latte e dei capelli della Vergine che fa inserire al suo interno.
E ne fa il suo talismano.
Lo porta sempre con , legato al petto con due lacci di cuoio, fino a pretendere che sia sepolto con lui.

Dopo il recupero da parte di Ottone III, per secoli del talismano si perdono tracce: probabilmente rimane custodito, tra le oreficerie e i vasi sacri del tesoro della Cattedrale, mentre il suo ricordo sfuma nell'alone indistinto della leggenda.
Ma ecco che, d'improvviso, torna alla luce. 

Il secondo atto si apre nella Cattedrale di Aquisgrana illuminata a giorno dalla luce delle candele.
Siamo nell'ottobre del 1804 e Giuseppina Bonaparte è arrivata da Parigi, per fare- nella città di Carlo Magno- le prove generali della nuova etichetta imperiale, con un un tour de force di ricevimenti, di mondanità e di cerimonie religiose.
Ed è proprio nel corso di un Te Deum nella cattedrale, che il talismano fa la sua splendente ricomparsa.
È il vescovo  stesso a offrirlo a Giuseppina, come ringraziamento a lei e, soprattutto, al suo augusto consorte, per aver restituito alla chiesa le reliquie confiscate durante la Rivoluzione.
Sarà per la bellezza dell'oro e delle pietre o per l'aura del mito di Carlo Magno, ma, da allora in poi, Giuseppina  da quel medaglione non si separa più. 
Tanto che alcuni giurano di averglielo visto al polso, quasi fosse un braccialetto, qualche mese dopo, nel giorno della sua solenne incoronazione a Imperatrice.
Testimone del suo momento di gloria, il talismano rimane con lei anche nei tempi bui, quando, dopo il divorzio da Napoleone, si ritira alla Malmaison.
E per anni quel gioiello barbarico spiccherà nel suo portagioie, come un'elemento alieno, tra le sottili filigrane dei suoi diademi e delle sue collane neo-classiche. 

Alla sua morte, Giuseppina lo lascerà all'amata figlia Ortensia, che, a sua volta, lo donerà al figlio. Anche stavolta si tratta di un imperatore: Napoleone III. 

Il terzo atto  prevede un nuovo cambio di scena.
Siamo nel sobborgo londinese di Chislehurst nella camera da letto di Napoleone III, in esilio in Inghilterra dal 1870, dopo il crollo del suo Impero.
Il talismano poco o nulla ha potuto contro la mala sorte. 
Ma la moglie, la religiosissima imperatrice Eugenia, convinta, malgrado tutto, dell'influsso benefico del gioiello, è riuscita a portarlo fortunosamente in Inghilterra, sottraendolo a ogni tentativo di confisca. 
Lo ha voluto con sé quando ha dato alla luce l'erede con l'idea, forse, di trasmettergli quel potere imperiale che pensava fosse legato al medaglione.
E ora che le sue ambizioni sono finite lo custodisce, nella camera del marito in un reliquiario a tempietto che ha commissionato a un orefice alla moda. 
E, finché può, non intende privarsene.

In realtà, le peregrinazioni del talismano non finiscono qui: manca ancora l'ultimo atto.

Siamo finalmente ai giorni nostri e in una sala del palazzo del Tau, annesso alla cattedrale di Reims, a cui l'imperatrice Eugenia lo ha donato dopo la morte del marito, il prezioso talismano si offre, nella sua vetrina, alla curiosità dei visitatori e, magari, si presta pure a qualche selfie. 
Ma guai a confonderlo con un qualsiasi, sia pur bellissimo, pezzo di oreficeria. 
Basta ripensare alla mani imperiali che lo hanno sfiorato e alla fama che lo ha accompagnato nel corso dei secoli, per ritrovare ancora intatta, nel baluginio dell'oro e delle gemme, la sua antica magia.






giovedì 21 agosto 2014

La via svizzera all'assurdo: le cartoline di Plonk e Replonk



Anche oggi, tanto per cambiare, è una giornata di tempo incerto e mi tocca a stare in casa. Per fortuna, posso distrarmi sfogliando un album di vecchie cartoline che immortalano eventi indimenticabili.

Come, ad esempio, la fine della ciclopica impresa della costruzione delle Alpi nel 1899, con un gruppo di operai che posano, fieri e orgogliosi, dopo aver collocato l'ultima cima:


oppure il primo (e, forse, unico) calesse a utilizzare la rivoluzionaria, quanto poco pratica, invenzione della retromarcia: 


per arrivare alla malinconica immagine di un'intera famiglia, colpita dalla terribile epidemia di mustacchi che infuriò nel 1890 e che non risparmiò né donne, né bambini: 


e per finire con la foto del 1911, che ritrae il glorioso Club dei giocatori di domino del Giura, in occasione della trentesima vittoria consecutiva nel Campionato svizzero a squadre:


No, non sono diventata matta e non avete nemmeno sbagliato blog. 
Queste cartoline esistono davvero: sono quelle create da Plonk e Replonk, due artisti, grafici, editori, comici e chi più ne ha più ne metta, titolari, dal 1997, di un atélier dichiarato da loro stessi "di pubblica inutilità"
All'anagrafe, Hubert e Jacques Froidevaux sono fratelli (qui) e, per di più, svizzeri, nati in una piccola città industriale, Chaux- de-Fonds, con "40.000 abitanti e altrettanti orologi" nel massiccio del Giura (qui è un video con una loro intervista)


La loro intenzione, sotto le vesti di Plok e Replonk (lo pseudonimo richiama i colpi del martello) è quella abbattere i luoghi comuni: primo fra tutti quello che gli svizzeri non abbiano senso dell'umorismo. Perché loro, invece, ne hanno da vendere. 
Un umorismo bizzarro che arriva fino all'assurdo. 
E che ha cominciato  a esercitarsi, modificando cartoline di fine'800, ritrovate in qualche negozio di rigattiere: vecchie foto, a cui il bianco e nero, il seppia o i colori sbiaditi e l'aria solenne dei protagonisti, abbigliati in ghette e doppiopetto, conferivano un tono di austera serietà.  
Con un programma di foto-ritocco e, dove occorre, anche con i tagli e le ricomposizioni di un "collage", sono stati capaci di trasformarle, con l'aggiunta delle loro bizzarre didascalie, in immagini così strampalate da rivelare insolite e insospettabili realtà. 

Basta guardare  come sono riusciti a stravolgere la serie dei "mestieri di una volta", tanto cara ai collezionisti più nostalgici.
Per esempio con questo gruppo di operai di Lione intenti al lavoro, che, brandendo biberon pieni fino all'orlo, si occupano dell'ingrasso dei bachi da seta:




Oppure con questo generale, che passa in rivista le truppe, abbigliato di un vezzoso tutù, ultimo esponente della nobile professione dei "generali da operetta": 



Sarcastici e irridenti, non si fermano nemmeno davanti all'esercito e arrivano, anzi, a ricreare interi battaglioni di fanti in divisa, rigidamente inquadrati e addestrati per pulire, con secchi e spazzoloni, lo sterco del cavallo del comandante:  


Tanto meno hanno scrupoli nell'attaccare tutta la retorica che imperversa nelle celebrazioni del Milite ignoto, collocando, accanto alla tomba, il gruppo in lutto della moglie e dei cinque figli:


Un umorismo beffardo, corrosivo, capace di impegnare  a lungo chi ha voluto trovarne ascendenze illustri tra le arti incoerenti (ne ho parlato qui), il movimento dada o il surrealismo, oppure lo ha avvicinato al non-sense, ai disegni dell'americano Glen Baxter (qui) e- perché no?- perfino alle paradossali battute dei Monthy Phyton.


Plonk e Replonk, però, non si lasciano classificare.  
Preferiscono che la loro opera rimanga un Ufo, un oggetto non identificato e si accontentano di definirsi, più che artisti, "politossicodipendenti di sigarette e di cioccolato". 
Intanto, senza prendersi troppo sul serio, continuano a sovvertire la realtà con le loro idee "che vanno e vengono come un tosaerba in uno stadio o come un boomerang australiano". 

Fino a prendere in giro una società di un tecnicismo così sofisticato da inventare macchine complesse per piegare le banane:


o così maniaca della sicurezza da simulare, con tanto di manichini disarticolati,  improbabili incidenti di pedalò:


Con quel pizzico di serietà e di abitudine agli impervi sentieri di montagna necessari per avventurarsi nel terreno vertiginoso dell'assurdo, Plonk e Replonk si divertono a sfidare il buon senso e a combattere, con l'ironia, le battute e i giochi di parole, le convenzioni del quotidiano

Come con questo straordinario "Fantasma" che all'Opéra preferisce "l'apéro":


Basterà immaginarselo, con tanto di lenzuolo e di catena, aleggiare intorno a qualche tavolino pronto per un'"apero-cena" (una parola che sembra inventata dai due fratelli) per introdurre un po' di bizzarria nelle nostre serate estive e rinfrescare i pensieri con l'aria stuzzicante delle montagne svizzere. 







Chi non si sgomenta di fronte all'assurdo, troverà una sorta di "the best of" nel loro delizioso libro "De Zéro a Z" (qui) oppure scoprirà, nel loro sito di plonkeries, tutta una serie di oggetti stravaganti e inutili, di cui non sarà facile fare a meno. Il link è qui 




giovedì 14 agosto 2014

Raoul Dufy: il piacere di dipingere




Vigilia di Ferragosto, tutti (o quasi) al mare o in vacanza. 
A me, rimasta come sono in città con un sole incerto e una temperatura che- almeno qui a Bruxelles- sa già d'autunno, non resta che trovare un po' di consolazione nel rivestire il blog dei colori dell'allegria.
Magari, pubblicando un quadro di Raoul Dufy (1877-1953) come "La mer a Sainte-Adresse" ora al Musée des Beaux Arts di Nancy:




Il sole al tramonto, in un cielo che trascolora dall'azzurro all'arancio, lascia sull'acqua del mare la sua scia rossa  e si offre, quasi fosse un primo attore, all'ammirazione di un gruppo di eleganti signori che passeggiano sulla Promenade.  All'orizzonte, una barca e un battello che lancia nell'aria il suo pennacchio di fumo.
Colori accesi, personaggi che diventano sintetiche silhouettes, un blu vivo che invade tutto: la sensazione di vitalità e di allegria che predomina nella tela è tipica della pittura di Raoul Dufy (ne ho parlato anche qui
Spiagge, regate, corse di cavalli, città in festa, sono i suoi soggetti preferiti. 
La "belle vie" di chi non ha preoccupazioni, ma anche quella di chi si sa godere ogni pur piccolo momento di felicità.

Sorte ingrata quella di quest'artista che fa della gioia di dipingere la sua ragione di vita. 
I critici più sussiegosi lo hanno inserito nella categoria dei pittori "troppo leggeri per essere grandi"Come se soltanto chi soffre e si macera fosse capace di fare arte.
Invece, la leggerezza può essere una virtù. Per me, addirittura, una delle più grandi.
Sarà per questo che mi piace tanto. E non sono, di certo, l'unica. Tant'è vero che Dufy è stato capace di suscitare l'ammirazione di una scrittrice di non facile contentatura come Gertrude Stein che, in un articolo su "Liberation" del 1946, identifica la sua arte con il piacere allo stato puro. 
Un bell'omaggio a un artista che, ai suoi inizi, ha costeggiato le avanguardie, dai fauves al cubismo, rimanendone influenzato, ma riuscendo a mantenere uno stile proprio e originale. 
E che è capace di percorrere tutta la sua esistenza con una levità straordinaria, anche quando, negli ultimi tempi, è fiaccato da una malattia invalidante. 

Pittore, illustratore, disegnatore di tessuti, la sua è una produzione sterminata, sempre sotto il segno dell'allegria e della gioia di vivere. 
Senza essere mai banale, perché Dufy è uno di quegli artisti che possono essere, allo stesso tempo, semplici e complessi e che sanno dissimulare, dietro una cortina luminosa di colori, tutto lo sforzo e la fatica.
Come qui, dove la sua pittura  può sembrare a prima vista perfino superficiale. E, invece, nasconde, nella sua apparente facilità, quella "sofisticazione vertiginosa di chi è in grado di giocare con la gradazione delle tinte, come se fossero note musicali", di cui parla l'amico poeta Guillaume Apollinaire.
Un'immagine, dunque, dove il piacere degli occhi diventa anche  quello dell'intelligenza e del cuore.

In fondo, con Dufy, concedersi una pausa, può essere anche questo.
Mettere un CD con una vecchia canzone di Charles Trenet (qui o qui), guardare un suo quadro, e, varcando con lui il cancello azzurro della fantasia, abbandonarsi, senza troppi pensieri, alla felicità del momento.  



R.Dufy, La  grille, 1930



venerdì 8 agosto 2014

Il Belgio, i frati trappisti e l'arte della birra



Agosto- si sa- è il mese delle ferie e dei viaggi  e mi sembra giusto che anche il blog respiri questo clima di vacanza.
Il fatto è che, al momento, non sono in grado di dare consigli per soggiorni al mare, in montagna, e nemmeno per gite in parchi naturali o in città d'arte. 
Mi è venuto a mente, però, di proporre  un itinerario, poco battuto, anche se non privo di attrattive: un giro per le abbazie trappiste del Belgio.
Detto così può sembrare un percorso "di nicchia", poco allettante e riservato solo a chi voglia estraniarsi dal mondo in cerca di meditazione e di raccoglimento. 
E, invece, è un itinerario che può offrire gustose e concrete soddisfazioni.

C'è poco da dire: il Belgio- ne ho avuto la conferma da quando ci vivo- è il paese della birra. 
Ne sono state censite più di mille (qui è il link), prodotte dappertutto, artigianalmente o da grandi industrie, nei  paesi o nelle città. 
E, consumate ovunque, in famiglia, come nei ristoranti  o nei bistrot, ma sempre- ed è tassativo- versate nel loro specifico bicchiere. 



Davvero difficile districarsi in questa selva di odori e sapori, ma gli intenditori- e in Belgio non sono pochi-  non hanno esitazioni. 
Affermano, con la sicurezza dettata dall'esperienza, che, per trovare le birre migliori, bisogna andare nelle Trappe, le abbazie dei Trappisti, i monaci del più rigoroso degli Ordini benedettini (qui è un link al sito).
Un'affermazione che può destare una certa meraviglia perché, a prima vista- lo ammetto- sembra che ci sia ben poco in comune tra la bionda bevanda e gli austeri monaci votati, da secoli, alla preghiera e al silenzio. 
E, invece, no! 
Basta ricordare che, all'interno delle Trappe, dietro le spesse mura della clausura, le giornate sono scandite dalle preghiere, ma anche- come prescrive la regola di san Benedetto dell'"Ora et labora"- dal lavoro destinato al sostentamento del convento 
Altrove, si coltivano orti, frutteti, o ci si dedica all'artigianato. 
In Belgio- c'è da stupirsi?- nelle abbazie trappiste, si produce birra. 
E che birra!

Talmente ricercata che, per fregiarsi dell'appellativo di trappista e del tipico logo esagonale, deve obbedire a una serie di regole inderogabili, pena la revoca del marchio: deve essere prodotta dai monaci all'interno dell'abbazia, imbottigliata e commercializzata sotto il controllo della comunità monastica. I profitti, poi, devono essere impegnati esclusivamente a scopi sociali o benefici (qui)

Le regole, come si vede, sono  rigide e le birre che si possono definire autenticamente trappiste sono poche: appena dieci in tutto il mondo (tutte le informazioni sono qui)
Due sono in Olanda, una negli Stati Uniti e una in Austria. 
Le altre sei sono tutte in Belgio. 
Elencate, rigorosamente in ordine alfabetico, per non scontentare nessuno, sono quelle di: Achel, Chimay, Orval, Rochefort, Westmalle e Westvleteren  (per ognuna ho inserito un link al sito con tutte le informazioni).

Insieme a Tintin, Magritte e la nazionale di calcio dei Diables rouges, rappresentano un punto d'orgoglio per tutti i Belgi, poco importa se valloni o fiamminghi. 
Tanto da essere citate in ogni guida gastronomica, esposte in ogni locale tipico che si rispetti  e raffigurate, addirittura, in una serie di francobolli:


È vero che le birre trappiste ormai non sono più un'esclusiva del Belgio e che si possono trovare dappertutto. 
Ma un' eccezione c'è: la Westvleteren, considerata dai più raffinati niente di meno che la migliore del mondo, imbottigliata, abitualmente, senza etichetta e con le informazioni di legge riportate sul tappo. 
Questa birra rarissima- i frati dell'abbazia che la produce sono appena dieci- non viene commercializzata in grandi quantità. 
Chi la vuole ne può ordinare una cassa, ma solo ogni sei mesi
In ogni caso, per bere una Westvleteren, così come le altre birre trappiste, è preferibile- e di gran lunga-  andare sul posto. 
Il gusto non sarà diverso, ma l'atmosfera di sicuro, sì.

Gli amatori d'arte e d'architettura si dovranno accontentare di vedere i conventi trappisti solo dall'esterno: sono luoghi di clausura edificati in posti isolati circondati dal verde e, per lo più, pesantemente rifatti tra Otto e Novecento. 
Per gli amatori di birra, invece, nessun problema: i bistrot dove trovare la loro bevanda preferita, in genere ubicati vicino all'abbazia da cui dipendono, sono aperti a tutti. 
Sedersi a un tavolino e gustare uno (o più) bicchieri di birra trappista, magari accompagnati da una "portion" di  formaggi d'abbazia sarà sempre possibile.
E, allora, cos'altro resta da dire, se non: Salute! Santé! Proost!





  





venerdì 1 agosto 2014

Il calendario di pietra: agosto




Dixe agosto: io cunzo le botte/ Vago cerchando quale eno più rotte,/ mettole fuora de dì e de notte/perché ne esca lo male savore (Ballata dei Mesi del XIV secolo)


Non si direbbe, ma siamo nel pieno dell'estate, ed è già Agosto, l'ottavo mese dell'anno.
Un mese "imperiale", almeno se si giudica dal nome che gli fu attribuito in onore di Augusto: fu il Senato romano a ribattezzare così il più banale "sextilis" e ad assegnargli un giorno in più, in modo che ne avesse il massimo, trentuno, e non sfigurasse a confronto del vicino Luglio, dedicato a Giulio Cesare. 
Le feste di metà mese, furono allora chiamate "feriae Augusti", diventate poi ferragosto e rimaste, fino a ora, un periodo di vacanza.
Chi può va in viaggio, in montagna o al mare: tutto il mese, del resto, è considerato tradizionalmente riservato all'ozio e al riposo. 

Vacanze, ozio? Niente di tutto questo nei calendari di pietra di Ferrara e di Arezzo degli inizi del XIII secolo da cui, quest'anno, ho deciso di "staccare un foglio" ogni primo del mese.
Di vacanza, a quei tempi, non si parla di sicuro: un periodo di riposo, se pure c'è, è concesso solo ai signori. 
I contadini, se hanno un momento libero, si dedicano alle riparazioni degli arnesi che serviranno di lì a poco: sanno che, dopo la fine della trebbiatura, devono già prepararsi alla vendemmia. 
L'avvicendarsi della stagioni, per loro, è scandito dagli stessi gesti, dallo stesse occupazioni che si ripetono invariate di padre in figlio, di generazione in generazione.
Non conoscono, con tutta probabilità, le "Feriae Augusti", né, tanto meno, quale sia il nome del mese o l'antico imperatore che glielo ha dato. 

Sanno, però, che è arrivato il tempo di riparare le botti. 
Ed ecco che, nella formella del ciclo di Ferrara, ora conservata al Museo della Cattedrale, all'ombra di un fico carico di foglie e di frutti, un giovane contadino, a piedi nudi e con la corta tunica legata in vita dalla cintura, curva le spalle in avanti e, con l'espressione assorta, si china su una botte, composta da doghe chiuse da cerchi di vimini o di salice intrecciato. 
Purtroppo, le ingiurie del tempo non hanno risparmiato la formella e mancano le mani e parti delle braccia.


Come si svolgesse la  scena, lo si capisce meglio dal mese di Agosto del Ciclo della Pieve di Santa Maria Assunta ad Arezzo, che deriva dal ciclo ferrarese, ma che- a differenza di quello- è rimasto intatto perfino nei colori.
Anche qui, sullo sfondo, c'è un rigoglioso albero di fico che, con la promessa della dolcezza dei suoi frutti, sembra rendere meno dura la fatica. 
Un giovane, abbigliato di una corta tunica estiva, consolida con un mazzuoloalternando i colpi, le doghe e i cerchi di una botte




Sa bene quello che deve fare: "un colpo al cerchio e uno alla botte". 
Gesti antichi e talmente ripetuti da diventare un modo di dire dei più comuni.  
La riparazione delle botti è un lavoro duro.
Un lavoro essenziale, anche se ai più può parere meno importante delle attività legate alla coltivazione del grano o alla vendemmia, che da sole occupano gran parte dell'anno e a cui partecipano tutti. 
Eppure, anche questa occupazione, che sembrerebbe secondaria, trova il suo spazio nelle rappresentazioni dei Cicli dei Mesi. 

Per i contadini che, in occasione delle feste comandate, entrano nelle chiese, immagini come queste sono importanti. 
Rappresentano, per loro, la conferma che- scolpiti sulle porte d'ingresso dell'edificio sacro- non ci sono solo i lontani episodi della Bibbia, del nuovo Testamento o delle storie dei Santi che, magari, sanno a mala pena riconoscere. 
Quando guardano le sculture dei Mesi vedono, invece, che lì  è rappresentata la loro vita di tutti i giorni, in ogni suo aspetto. 
Lì non hanno bisogno di spiegazioni: quei gesti li riconoscono uno a uno. 
E sentono che, nella dignità di quelle rappresentazioni, anche la loro più minuta fatica quotidiana assume una dimensione quasi sacra.