giovedì 26 settembre 2013

I ritratti del Fayum: i volti dell'anima




Ci sono immagini che si possono guardare mille volte, senza che perdano nulla della loro suggestione. 
Come queste, per esempio:

il ritratto di una ragazza vestita con un’elegante tunica rossa e una corona di foglie d’oro, 


quello di una donna (Alina è il nome che compare nell'iscrizione)  con i capelli ricci, il volto grassoccio e l'aria di una casalinga vestita a festa, 


o quello  di un giovane in tunica bianca che conserva ancora l’espressione timida di un adolescente


Oppure quello di un uomo più maturo, che fissa davanti a se qualcosa che non riusciamo a vedere.


Nessuno sfondo, nessuna ambientazione, nessun dettaglio, solo volti dai grandi occhi spalancati.  
Se non fosse per l’abbigliamento potrebbero essere dignitosi ritratti borghesi dell’800. 
Invece, no. Sono dipinti vecchi di quasi duemila anni. L'epoca, a cui risalgono va, addirittura, dal I secolo a.C. al III d.C. (qui è il link per la storia e qui per le immagini)

Al tempo della dominazione romana, in Egitto, nella lussureggiante oasi del Fayum o lungo la Valle del Nilo, i funzionari venuti da Roma, vivevano insieme ai discendenti dei coloni militari greci e alle popolazioni locali. 
Roma, la capitale dell'Impero, era lontana e, in quei territori di mercanti e di commerci, si mescolavano abitudini di vita e credenze religiose. 
Nella speranza di assicurarsi una vita ultraterrena, i più avevano adottato i complessi rituali funerari egizi. 
Primo fra tutti, l'imbalsamazione dei corpi.
I ritratti, eseguiti su sottili tavolette di legno o su tela di lino, non erano nati per essere esposti, né tanto meno come opere d’arte a se stanti. 
Facevano parte, invece, dei complessi rituali funebri e servivano a ricoprire e identificare i volti dei defunti. Tanto che, a volte, erano accompagnati da iscrizioni che specificavano il nome e l'età, in un modo analogo a quello delle foto che ornano le tombe dei nostri cimiteri. 
E come quelle erano capaci di raccontare la loro storia.

I personaggi ritratti sono, per lo più, giovani. 
L'età media sembra essere tra i trenta e i quarant'anni, a conferma di un mondo in cui l'aspettativa di vita era brevissima e la morte un fatto quotidiano.

Dipinti, probabilmente, da pittori di scuola greca, a tempera o con la tecnica dell'encausto (con i colori disciolti nella cera calda), restituiscono con estrema immediatezza e con un’intensità sconvolgente, le fattezze di quegli uomini e quelle donne di un passato lontano.   
Nessuna idealizzazione: tutti sono raffigurati con grande accuratezza, dalla struttura del viso, al colore della pelle, ai piccoli difetti fisici. 
E ognuno è caratterizzato con un'espressione, ora severa, ora smarrita, ora stupita o malinconica.
Diverse sono le etnie, dai greci, ai romani agli egiziani come differenti sono le estrazioni sociali: non solo aristocratici, ma gente comune, mercanti, insegnanti, funzionari, militari, adolescenti donne e, addirittura, bambini. 
Comunque  tutti  di famiglie abbastanza facoltose da potersi permettere i costosissimi riti della mummificazione.



L'abbigliamento varia a seconda della data di esecuzione, ma riprende sempre- pur col ritardo della provincia- le tendenze di moda a Roma.

Tanto che si ha l'impressione che molti ci tengano a mostrarsi nelle loro vesti migliori

Come  questa bruna matrona- Isidora è il nome che compare nell'iscrizione- fiera di sfoggiare non solo un'elaborata acconciatura e preziosi gioielli d'oro e pietre preziose, ma anche una raffinata tunica rosso scuro.

A volte i particolari dell'abbigliamento sono trattati più schematicamente, ma le fisionomie sono sempre rese con estremo realismo. Al punto che ci sembra che i personaggi ritratti siano nostri contemporanei


Come questo ragazzo che mostra, con lo stesso orgoglio di un giovane d’oggi, la corta barba che si è appena fatto crescere.

Allo stesso tempo abbiamo la sensazione che siano divisi da noi da una distanza siderale, che non è solo quella del tempo. E che rappresenta uno dei motivi del loro fascino.
Insieme, c’è la suggestione che si prova nell'essere di fronte alle uniche testimonianze di dipinti non murali dell’antichità, capaci di farci immaginare quale fosse la qualità della pittura classica. 
Quella pittura, che, più ancora della scultura, ci permette non solo di ritrovare i lineamenti di persone vissute duemila anni fa, ma di intuirne anche il carattere. 
Come in una sorta di "Antologia di Spoon River" dipinta, dove ognuno abbia la possibilità di parlarci di sé.

Ma c’è ancora una sensazione più indefinita che ci colpisce e che nasce da quegli sguardi indecifrabili e persi in un punto lontano.
Sembra che tutte le persone ritratte abbiano l'aria di conoscere qualcosa che noi non sappiamo e che siano accomunate dalla condivisione di uno stesso segreto.
Quello che ci commuove è l'impressione che la  pittura le abbia fermate nel momento struggente, in cui stanno per varcare la soglia del mistero. 
E che, per usare un frase del grande storico dell'arte Julius Schlosser, "nello stupore dei loro occhi spalancati si possa riflettere l'infinito al di là di noi".








Dal momento del ritrovamento  nel corso degli scavi archeologici di fine ’800 questi ritratti- ne sono stati recuperati più di seicento, ora sparsi in numerosi musei del mondo- non hanno cessato di fare sensazione. 
Moltissimo, ovviamente, ne è stato scritto: una sintesi degli studi è nel catalogo della mostra” Misteriosi volti dall'Egitto” tenuta nel 1998 alla Fondazione Memmo di Roma (qui è il link)






martedì 17 settembre 2013

La Galleria degli specchi a Versailles: "Specchio, specchio delle mie brame..."




Nel 1665, a Murano, in una notte piovosa di maggio, tre uomini stanno parlando a bassa voce nell'ombra di un sotoportego
Due sono abbigliati con sobrie vesti scure. Il terzo, lascia intravedere, sotto un ampio mantello nero, la manica ricamata di un'elegante marsina. 
Tutt'e tre si guardano intorno con lunghe occhiate sospettose. 
Non appena sono sicuri che nessuno li segua, fanno cenno a un gondoliere che si accosta silenziosamente e li trasporta verso una barca ormeggiata più lontano. 

Tutto si svolge così rapidamente che gli agenti del Consiglio dei Dieci, incaricati della sorveglianza dell’isola, non si accorgono di nulla. 
Solo all'indomani, all'alba, gli sbirri della Serenissima cominceranno a dare la caccia ai tre in un inseguimento che da Ferrara li condurrà a Torino e a Lione, senza mai riuscire a fermarli. Qualche giorno dopo, i tre fuggiaschi raggiungeranno Parigi. 

Ma chi saranno mai quei misteriosi personaggi? 
L'uomo elegante è un aristocratico francese, una spia incaricata dal potente Ministro delle finanze di Luigi XIV, Jean-Baptiste Colbert, di una missione segreta. 
Il suo compito non è facile, ma ha avuto l’ordine di portarlo a termine ad ogni costo. Deve fare in modo di condurre a Parigi un piccolo gruppo di vetrai che è riuscito a reclutare a Murano. 
I due di quella notte sono i primi a partire. 
C'è voluta tutta la sua abilità per convincerli a superare i loro timori con promesse mirabolanti di denaro e bella vita. 

I vetrai specializzati godono a Venezia di numerosi privilegi, dall'esenzione dalle tasse, all'autorizzazione al matrimonio con fanciulle nobili. Devono, però, sottostare a regole rigorose: è proibito emigrare o rivelare i segreti della loro professione per non incorrere in pene severissime. 
Chi ha deciso di partire sa bene che, se viene catturato, sarà ricondotto con la forza a Venezia, per essere giudicato come traditore a rischio di una condanna a morte. 
Ma anche chi riesce ad arrivare in Francia non potrà stare tranquillo: la vendetta di Venezia può raggiungerlo anche là. 
Ne sono prova i cadaveri di un lucidatore e un soffiatore di Murano ritrovati a Parigi con tutti i sintomi di un avvelenamento. 
È un avvertimento e dietro c’è sicuramente la mano della Serenissima. 

Ma ormai ogni intimidazione è inutile.
I francesi sono riusciti a carpire il segreto più prezioso di Venezia: la fabbricazione degli specchi. 
Nell'ottobre del 1665 verrà  creata a Parigi la Manufacture royale des Glaces, destinata a diventare la Manifattura di Saint Gobain e, l’anno successivo, seguendo le istruzioni dei vetrai di Murano, verrà prodotto in Francia il primo specchio alla maniera veneziana (qui).

Dietro questa specie di guerra, combattuta senza esclusione di colpi, tra spie, fughe e veleni, ci sono i più irresistibili dei motivi: il denaro e il potere. 
Fino ad allora Venezia deteneva il monopolio della fabbricazione degli specchi in vetro rivestiti con un amalgama di mercurio e di stagno, gli unici che fossero limpidi e trasparenti come quelli di oggi. 
Li vendeva in tutta Europa, guadagnando cifre enormi. 
In Francia il prezzo medio di uno specchio veneziano equivaleva più o meno a tre anni di lavoro di un operaio e solo i più ricchi se li potevano permettere. Gli inventari riportano che uno specchio di Murano era valutato più di un dipinto di Raffaello e si diceva che non pochi fossero disposti a vendere terreni e proprietà, pur di possederne uno. 
Per Venezia era un’entrata garantita, per le finanze francesi una vera e propria emorragia. 

Spezzare il monopolio veneziano rientra nel piano ambizioso di Colbert di creare una serie di manifatture reali che assicurino alla Francia il primato nella produzione di generi di lusso, dalle sete, agli arazzi, ai merletti. 
Ma per la fabbricazione degli specchi c’è una ragione di più e non di poco conto: la volontà del re. 

Da tempo Luigi XIV si è messo in mente di realizzare il progetto ideato dal suo architetto di fiducia, Jules Hardouin-Mansart, e di costruire, nel suo nuovo palazzo di Versailles, una galleria di uno splendore inaudito. 
Per questo ha dato ordine di rubare il segreto di Venezia. Ad ogni costo.


La Galerie des Glaces, la Galleria degli specchi, si inaugura nel 1682. 
Tutto là dentro è concepito per esaltare la gloria del re: dai dipinti di Le Brun sul soffitto, in cui le imprese di Luigi XIV sono celebrate in forma di allegorie all'antica, alle decorazioni in bronzo dorato dei capitelli con il sole reale sormontato dal giglio di Francia. 
La ricchezza dei materiali, dal marmo, al bronzo, alla foglia d’oro, all'argento massiccio degli arredi è già sufficiente per impressionare ambasciatori e visitatori stranieri, invitati a sostare nella Galleria in attesa di essere ricevuti dal re (qui).

Ma non è nulla in confronto alla meraviglia delle diciassette finte finestre a specchio, poste di fronte alle grandi finestre che si affacciano sul  giardino. 
Una decorazione simile fino ad allora non si era mai vista: per realizzarla sono stati utilizzati più di trecento specchi. 
Di giorno riflettono la luce che arriva da fuori, annullando ogni divisione tra interno e esterno. Di notte, illuminati da migliaia di candele, riverberano lo splendore degli arredi, ma anche gli scintillii delle sete, degli ori, delle pietre preziose che ornano le sontuose vesti dei gentiluomini e delle dame, moltiplicando all'infinito, in un gioco di illusioni, il lusso e la ricchezza della corte. 

Il Re Sole ha raggiunto quello che voleva. 
Quando farà la sua apparizione, percorrendo la lunga galleria, tutti potranno riconoscere, in quegli innumerevoli e abbaglianti riflessi della sua immagine, la manifestazione visibile della sua potenza.




La vicenda degli specchi  è rievocata nel romanzo di Clare Colvin, Il palazzo dei riflessi, ed Il Corbaccio 2004. 

martedì 10 settembre 2013

Le rughe della città: le foto di JR




Di chi saranno mai queste foto di un volto sorridente che emerge da un muro di Shanghai, tra edifici in disfacimento e nuove costruzioni?



E chi, sempre a Shanghai, si fa ritrarre in un gesto di rimpianto, tra le macerie di una città in continua trasformazione? 




Chissà, poi, chi conoscerà l'identità di questa donna che, a Berlino, sembra sognare qualcosa di diverso dalla banalità dei condomini tutti uguali di una periferia simile a mille altre:




O queste due facce pensose che, ancora a Berlino, forse immaginano un mondo differente da quello della vecchia fabbrica sullo sfondo:





Oppure questa coppia che, a Cuba, sui muri fatiscenti di un edificio dell'Avana sembra condividere uno stesso ricordo: 





O, ancora all'Avana, questo volto assorto di vecchio che quasi non si accorge della vita gli passa accanto con la velocità di un bambino che corre:




Sono tutte foto che fanno parte del progetto "Wrinkels of the city/ Le rughe delle città" di un artista, anzi di un "artvista", come gli piace definirsi, con un vocabolo che unisce insieme arte e attivismo politico.
Si fa chiamare JR, usando le sole iniziali del nome per rimanere più anonimo possibile e libero di muoversi in ambienti e territori diversi (QUI)

Nato nel 1983 ha iniziato come "graffitaro" e, pur rimanendo sempre nel campo della "street art", è  poi diventato fotografo e regista di video. 
Tutto è partito (o almeno così gli piace raccontare) dal ritrovamento di una piccola e scadente macchina fotografica, abbandonata in una stazione della metropolitana parigina.
Da lì è nata l'idea che sta alla base del suo percorso artistico: quella di fotografare i volti della gente, "andando il più vicino possibile alla persona, fino a sentirne il respiro", in modo da creare un rapporto di complicità tra fotografo e modello. 
Quelle foto, poi,  le stampa in un formato gigantesco e le incolla (per lo più illegalmente) su qualsiasi supporto, dai muri, alle fiancate degli autobus, alle carrozze della metropolitana. 
La sua intenzione è quella di portare l'arte fuori dai circuiti tradizionali, trasformando le città in quella che definisce la "più grande galleria d'arte al mondo".

I tanti progetti, che ha ideato e che ancora sta realizzando, si possono trovare sul suo sito (QUI). Oppure si possono ascoltare, raccontati da lui stesso, nel discorso, pubblicato QUItenuto in occasione della premiazione col prestigioso TED Prize
I volti nelle sue foto sono sempre protagonisti e sempre, dietro ognuno, c'è una vicenda privata o collettiva che vale la pena di scoprire.

Fin da "Face2Face" in cui foto di israeliani e di palestinesi, che hanno accettato di farsi riprendere mentre ridono o fanno le smorfie, vengono affisse (abusivamente), faccia a faccia, dall'una e dall'altra parte del muro di confine tra Israele e i territori arabi. 
E, al di là di ogni stereotipo, si possono scoprire finalmente uguali. 



Per arrivare a "Woman are heroes" il film che ha realizzato, dopo aver fotografato i volti delle donne, che abitano nelle favelas sud-americane o nelle bidonville africane. Foto che, poi, ha affisso dappertutto.

Come quelle che ricoprono i tetti delle baracche della periferia di Kibera in Kenya, dove i tratti dei visi, gli sguardi, le espressioni parlano della dignità e del coraggio di queste straordinarie eroine di tutti i giorni.

Nel progetto di "The wrinkles of the city/Le rughe delle città" ha pensato, invece, di esporre i suoi ritratti, in città che si sono trasformate fin troppo velocemente, da Shanghai, a Cartagena, a Los Angeles, a Berlino, all'Avana, sfruttando tutte le superfici, dai muri dei grattaceli recenti, ai palazzi in rovina, 
Nessuna sfumatura, nessun ritocco per attenuare le rughe incise sui volti delle persone comuni che ha fotografato: le loro rughe, i loro segni sono quelli stessi delle città in cui abitano. 
Sono loro, a volte, l'unica memoria che sopravvive dei quartieri, degli edifici abbattuti, di quelle rovine che il tempo o la speculazione edilizia, hanno lasciato dietro di se.



"Lavoro in città che hanno una storia forte, i cui muri hanno le rughe, come quelle della gente che fotografo, testimone di una storia che la mia generazione ha conosciuto solo sui libri": -racconta.

Nel mondo della velocità, del rinnovamento, della giovinezza a tutti i costi  le gigantografie di JR, dimostrano come le città siano fatte anche dei ricordi, delle memorie, perfino delle cicatrici o dei sorrisi dei vecchi che le hanno abitate. 
Volti sconosciuti che, con fierezza e dignità, ci parlano di un mondo che tenga conto anche del trascorrere del tempo e che sappia rispettare il passato, la storia degli uomini e quella degli ambienti in cui vivono.






domenica 1 settembre 2013

Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento: settembre




Siamo appena al primo del mese e sono già pronta a staccare il nono "foglio" del calendario del Ciclo di mesi di Torre Aquila a Trento, tanta è la curiosità di scoprire cosa accadeva nel settembre di sei secoli fa.


Nei possedimenti del committente del Ciclo, il principe vescovo Giorgio di Liechtenstein, contadini e signori sono intenti alle loro occupazioni stagionali.  Come al solito, nel piccolo mondo perfetto del'affresco, ricreato dall'artista, Maestro Venceslao, la fatica dei campi convive, senza contrasti, con gli svaghi degli aristocratici.
Andiamo, allora, a vedere cosa succede nel dipinto. 
Gli episodi sono tutti raffigurati su uno sfondo di rocce rosse e gialle che ricordano una scenografia di cartapesta allestita per una recita infantile.
In alto sono rappresentate le attività agricole tipiche del mese: la preparazione del terreno e la raccolta dei prodotti stagionali. 

Nella prima scena, due contadini, vestiti con corte tuniche chiare, conducono l'aratro, tirato da una coppia di buoi e da una di cavalli. 


Una donna, con una veste bianca e i piedi nudi, lavora con la zappa lungo le linee perfettamente tracciate dei solchi.



Al centro, un'altra contadina è intenta a raccogliere le rape. La rapa bianca, coltivata negli orti o in campi aperti, aveva all'epoca, la stessa importanza che poi avrebbe assunto la patata ed era molto diffusa in tutto l'arco alpino perché resisteva bene al freddo e si conservava a lungo. Insieme al cavolo, era l'alimento indispensabile nei lunghi inverni della montagna. 

Sta arrivando l'autunno e i contadini si preoccupano di assicurarsi il necessario per la cattiva stagione. 
I nobili, invece, non sembrano darsi pensiero del freddo che arriva e continuano, come nei mesi di luglio e di agosto, a divertirsi con il loro svago preferito: la caccia col falco.


Dalla porta dello stesso castello rosso, che faceva da sfondo alla scena di agosto, escono ora, a cavallo, una dama e due cavalieri, circondati dai loro cani Più in alto, due gentiluomini stanno già cacciando. 
Sanno che per la pratica della falconeria l'inizio d'autunno è il periodo migliore e si affrettano ad appostarsi, con i loro falchi ben addestrati, tra le rocce e i bassi cespugli
E chissà che a qualcuno di loro non risuonino in mente i versi con cui il poeta Folgore da san Gimignano aveva celebrato, un secolo prima, il mese di settembre e la caccia con i rapaci
Di settembre vi do diletti tanti/ Falconi, astori, smerletti, sparvieri/ lunghe, gherbegli, geti con carnieri/ bracchetti con sonagli, pasto e guanti... che fosser boni da snidare e prendere/ l'uno e l'altro tuttavia donando/ e possasi rubar e non contendere...

Fatica da una parte, divertimenti e tradizioni riservate solo all'aristocrazia dall'altra. 
Nella fittizia armonia dell'affresco, mentre il sole in alto continua imperturbabile il suo corso e una stagione succede all'altra, i nobili si svagano e i contadini sembrano lieti di stare al proprio posto, senza proteste e senza ribellioni.
Sulle pareti di Torre Aquila il sogno, ancora una volta, ha preso il posto della realtà.