sabato 27 ottobre 2012

Hokusai, le "Trentasei vedute del monte Fuji": l'onda e la montagna





Quando, anni fa, sono andata in Giappone, con la sola compagnia delle "Ore giapponesi" del grande Fosco Maraini (ne ho parlato qui) la prima impressione, dall'aereo, è stata quella di isole piatte che fluttuavano su un mare chiarissimo, come zattere, che affiorassero appena, a pelo d'acqua. 
L'unica sagoma che emergeva, in controluce, era quella di un vulcano, il cono perfetto del monte Fuji. 
Un'insieme di linee pure, di contorni netti e definiti. È la stessa visione che mi piace ritrovare nelle stampe dell'artista geniale e travolgente che fu Hokusai (1760-1849).


Qui, il Fuji spicca, al centro della scena, col suo colore di un ruggine acceso, che diventa più scuro sulla cima, in contrasto col bianco immacolato della neve. Il sole illumina le pendici, ricoperte da un fitto bosco di un verde cupo, mentre il cielo azzurro, è solcato da candidi banchi di nubi.

È una stampa della serie delle “Trentasei vedute del monte Fuji”, realizzata da Hokusai tra il 1826 e il 1833, con una tecnica di incisione su legno complessa ed elaborata.
Per lui, fervente shintoista, il Fuji è la montagna sacra, il simbolo di tutto il Giappone. La vuole ritrarre in ogni suo aspetto, a ogni variare della luce e dell'atmosfera delle stagioni.
In primo piano, o lontano sull'orizzonte, gli pare sia lo sfondo perfetto per cogliere i diversi momenti della vita degli uomini, che vivono e lavorano alle sue pendici


Lo stile è quello tipico delle stampe giapponesi: una rappresentazione, ridotta all'essenziale, senza alcun rilievo, dove la linea sola definisce le forme. Il Fuji innevato e illuminato dalla luce di un’alba gelida, fa da cornice alla lenta ascesa, verso un passo montano, di uomini stanchi e cavalli sovraccarichi.






L'acqua placida del fiume contrasta con la massa scura della montagna. Il banco di nebbia che si alza dà l'impressione di lontananza e di profondità. Una barca attraversa lentamente il fiume, mentre un uomo guida un cavallo lungo la riva. L'armonia dei colori della terra, del bianco della neve e dell'azzurro dell'acqua e del cielo, è accentuata da un tocco di blu.

È quel blu, di cui Hokusai si è invaghito, non appena l'ha visto e che usa per la prima volta: il blu di Prussia, appena scoperto e importato in Giappone dall'Olanda.

Nella straordinaria ”Grande onda di Kanagawa” lo scuro del blu di Prussia serve ad accentuare la potenza dell’acqua schiumante che incombe sulle fragili barche dei pescatori. E, sullo sfondo, ancora immutabile il monte Fuji.
Per dare profondità alla scena adotta un'altra novità: la prospettiva, appresa dalle incisioni e dai dipinti di paesaggio che arrivavano, proprio allora, dall'Europa.



Immagini sintetiche, linee nette, colori primari che sanno cogliere la transitorietà e la bellezza dell'attimo, ma anche il profondo rapporto che lega l'uomo alla natura: con Hokusai il paesaggio diventa un genere a se stante. 
La novità dello stile e del soggetto della serie ebbero un effetto folgorante. 
Il successo fu immediato, tanto che l'artista dovette aggiungere subito altre incisioni: le repliche e le imitazioni non si potevano contare.

Fino ad allora, Hokusai era famoso nelle classi più popolari, tra i mercanti, gli artigiani o i frequentatori delle case da tè, ma aveva avuto scarsi riconoscimenti dai pittori più tradizionalisti. Lo consideravano "ignobile e volgare” perché privo di cultura letteraria, tanto che lui stesso, con un pizzico di ironia, amava definirsi "il contadino”.
Ora, invece, le grandi incisioni delle "Trentasei vedute" conquistano tutti. 
Saranno queste a diffondere in Europa il gusto per la pittura giapponese: una rivelazione abbagliante per artisti del calibro di Degas, Monet, Gauguin o Van Gogh.

All'epoca della pubblicazione, ha settantatré anni e, dietro di sé, una vita intensa. Orfano, adottato da un fabbricante di specchi, ha scoperto precocemente la sua abilità di disegnatore. Non ha fatto altro che seguire il suo talento e la sua curiosità insaziabile, costeggiando spesso la miseria, a volte collaborando con grandi maestri, a volte in solitudine. 
Lo spinge avanti l'amore per la vita e la voglia inesauribile di raffigurare, tutto quello che vede: le scene più comuni del quotidiano, i piccoli episodi di tutti i giorni, così come i ritratti delle geishe, degli attori di Kabuki o dei lottatori di sumo.
Una produzione sterminata, la sua: migliaia di opere di tutti i generi, dalla pittura, alle incisioni, ai libri illustrati, ai raffinati biglietti di auguri.

È un inquieto e il suo desiderio di scoprire cose nuove lo porta a viaggiare per tutto il paese: come "artista errante" comincia ad appassionarsi, sempre di più allo spettacolo grandioso e continuamente mutevole della natura.
Lo stupore, con cui guarda il mondo, non lo abbandona mai.
Nulla sfugge ai suoi occhi: la sua passione è osservare tutto, la sua ossessione dipingere e restituire, nelle sue opere, la bellezza di quello che lo circonda. 
Non fosse che un istante, come questo, col fulmine che colpisce, d'improvviso, le pendici del Fuji.


Dopo aver percorso tante strade, aver tanto lavorato ed essersi firmato con centinaia di pseudonimi diversi, sembra aver trovato, finalmente, quello che più lo rappresenta.
Sceglie di chiamarsi “Gakojin, pazzo per il disegno
Pazzo per il disegno e per la vita, in ogni suo aspetto.

Scrive nella prefazione alle "Vedute":
”…Solo ora, a settantatré anni, ho capito, pressappoco, la conformazione degli animali, delle erbe, degli alberi e degli uccelli, dei pesci e degli insetti; a ottant'anni avrò fatto progressi ancora maggiori; a novanta penetrerò il mistero delle cose; a cento raggiungerò il grado puro della meraviglia; a centodieci, nella mia opera, tutto, anche una semplice linea o un punto, sarà una cosa viva…”
Il suo cammino non è finito. Non si sente mai realizzato e continua ad andare avanti e a disegnare, finché ne avrà forza.
Nel 1848, a ottantotto anni, scrive di nuovo: “Se il cielo mi desse ancora cinque anni di vita, potrei diventare un grande pittore”.

Il destino gliene darà uno solo.
Morirà, nel maggio dell’anno successivo, dopo avere composto il suo ultimo haiku:
Anche solo come anima, staccata dal corpo, me ne andrò, per diletto, sui prati d'estate”.




Tutte le immagini delle "Vedute" sono bellissime: non mi stancherei mai di guardarle. QUI è il link con l'intera serie. E questo è un video sulla serie.

sabato 20 ottobre 2012

Le ali di Jean Michel Folon



"Cosa abbiamo fatto d'altro, se non dar vita ai nostri sogni infantili ?" (Fellini a Folon)




"Illustratore" è stato spesso definito Jean Michel Folon e mai definizione fu più azzeccata, se si pensa che, stando all'etimologia, illustrare vuol dire "fare luce".
Perché, con le sue opere, Folon è stato capace di illuminare il nostro modo di guardare il mondo.


Pittore, scultore, grafico, creatore di manifesti pubblicitari, qualunque tecnica abbia usato e in qualunque campo abbia lavorato, il suo intento è stato sempre quello di rivelare, nelle sue immagini sfumate, che suggeriscono più che definire, "la bellezza nascosta della realtà".

È nato in Belgio, Folon, nel paese di Magritte, di Simenon e di Jacques Brel, un paese che amo e che conosco e di cui mi pare condivida la capacità di osservare, con un pizzico di tenerezza e senza mai giudicare, le meschinità, ma anche le piccole follie del nostro quotidiano.

L'omino, che appare spesso nelle sue opere, vestito di un banale cappotto e di un cappello, che pare un omaggio al surrealismo e all'ironia del grande Magritte, viaggia attraverso i suoi e i nostri sogni.



Seduto, come in questa scultura, nel mare del Nord, a Knokke sulla costa belga, ricoperto dall'acqua ad ogni marea, si immerge- è proprio il caso di dirlo- nello spettacolo della natura.

"Quando disegnano, i bambini cominciano dal sole e dagli elementi naturali. Anch'io parto dagli elementi più semplici, il mare, un occhio, una nuvola, per scoprire l'incanto del mondo": usava dire.







"L'arte è un rifugio": era una delle sue espressioni preferite.
Certo, non si può, né si deve, dimenticare la realtà, ma si può tentare di mettere le ali e di sfuggire, per un po', ai nostri affanni.
Seguendolo nei suo spazi aperti e nelle sue terre multicolori, illuminate dai suoi lievi arcobaleni, è forse possibile ritrovare, insieme alla poesia, anche  la speranza

Quando si occupa di temi importanti- le sue battaglie civili, soprattutto con Amnesty, hanno toccato argomenti come la lotta alla pena di morte, la guerra, la fame e la miseria del mondo- le sue immagini, essenziali e mai gratuite, sono capaci, come ha detto Ray Bradbury, "di dare risposte semplici a questioni complesse".
Semplici, ma non superficiali, come non è superficiale l'invito a raggiungerlo in quell'"altrove"di sogno, dove lo porta la sua fantasia.



"Ho soltanto cercato di fissare i miei sogni, con la speranza che qualcuno ci attacchi i suoi": questo vuole ottenere. E non è poco.

Ripetitivo è stato considerato. Ma non sono, forse, ripetitive anche le favole della nostra infanzia che, invece, ci davano la chiave per interpretare e accettare il male del mondo?



Il suo ottimismo ostinato, l'ingenuità che, a volte, ostenta nelle sue interviste, dimostrano quanto possa essere eversivo guardare il mondo con la purezza degli occhi di un bambino.

E quanto possa essere importante opporre, alla volgarità del quotidiano, la difficile virtù della leggerezza.









"Il sognatore è un uomo con i piedi ben piantati sulle nuvole": diceva Ennio Flaiano. E Folon è stato un grande sognatore.
Ci ha lasciato, consegnandoci in eredità la sua caparbia volontà di seguire il cuore e la fantasia, il 20 ottobre del 2005.







Nel grande parco Solvay a La Hulpe, vicino a Bruxelles, ha sede la Fondazione Folon (QUI è il link).
Mentre scrivevo questo post, ascoltavo questa musica di Erik Satie.
All'inizio è stato un caso, ora mi pare la colonna sonora più adatta. 

venerdì 12 ottobre 2012

Achille Campanile e l'Ignoto




"Mi guidano, quando scrivo, lampi di imbecillità" (Achille Campanile)



Ho ricevuto da un'amica un racconto di uno dei miei scrittori preferiti, Achille Campanile. La tentazione di pubblicarlo era irresistibile.
E, infatti, non ho resistito.
Se leggere Achille Campanile serve sempre, per gli storici dell'arte più avveduti, può rivelarsi, addirittura, indispensabile.
Nel terreno irto di insidie della critica d'arte, sarebbe duro cavarsela, senza i suoi consigli, in situazioni delicate come le visite alle esposizioni di artisti contemporanei (il link è QUI).
Anche quando si tratta di addentrarsi in una delle questioni più spinose dell'iconografia, siamo sicuri che Campanile non si tira indietro.
Riconoscere i personaggi ritratti da Antonello da Messina, facile non è. Ma Achille Campanile, riesce, da par suo, a risolvere l'enigma e a svelare, finalmente, cosa si celi dietro l'Ignoto.



"Di Antonello da Messina tutti conoscono il famoso "Ritratto d’Ignoto" e, se non temessi di ripetere una freddura che circola, evidentemente fin dai tempi di Antonello, direi che mai ignoto fu più noto di questo, il suo ritratto essendo riprodotto in tutti i manuali d’arte e in ogni libro dove si parli del pittore siciliano. ... C’era da credere che egli fosse l’unico ignoto dell’arte Antonellesca.
Viceversa, sfogliate l’Enciclopedia.
Alla voce Antonello si trova la riproduzione del famoso quadro che occupa un’intiera pagina e reca la scritta: “Antonello da Messina: Ritratto d’Ignoto". Voltate il foglio e trovate un’altra riproduzione di quadro che occupa un’altra pagina e reca la scritta: “Antonello da Messina: Ritratto d’Ignoto“.
Ora la cosa strana è che questo non è il medesimo ignoto.
È un altro ignoto. Si tratta di due ignoti differenti.
Lì per lì si resta perplessi: Come va, vi chiedete, questa faccenda? Forse Antonello faceva soltanto ritratti agli ignoti?

Ebbene, ho indagato e ho scoperto che questa supposizione non è avventata. Come alcuni pittori sono specializzati in ritratti di dame aristocratiche, di artisti, guerrieri, prelati, o celebrità, così Antonello s’era specializzato in ritratti d’ignoti.
La cosa, in verità, come molte faccende dell’arte, nacque per caso. Antonello fece il ritratto d’un tale conosciutissimo. Ma disgraziatamente risultò che non somigliava affatto. Esposto il quadro, tutti si domandavano:
“Ma chi è? “
“È il tale. “
“Non è possibile. Non somiglia affatto.“
“ Ma allora, chi può essere? “
“ Vattelappesca.”
Il ritratto non somigliava a nessuno. Interrogato il pittore, questi si vergognò di confessare che non aveva azzeccato la somiglianza e disse:
“È un ignoto. Non mi chiedete di più “.
Un ignoto. La cosa circolò, ebbe fortuna.
Tutti dissero: “Ma guarda che bell’ignoto ha dipinto Antonello”.
Un successone.

Da quel giorno Antonello capì qual era la sua vocazione e si dedicò a effigiare ignoti. Tutti gli ignoti andavano da lui a farsi fare il ritratto.
“Scusate-  chiedeva il pittore, quando si presentava un tale alla sua porta-  voi chi siete? “
E quegli: “ Non ve lo posso dire. Fatemi il ritratto“.
Antonello si metteva all’opera. Certe volte, tra una pennellata e l’altra, pensava: Chi sarà? L’altro, zitto.
Poi se ne andava tutto intabarrato, desiderando conservare l’incognito.
Esposto il ritratto, la gente diceva: “È somigliantissimo “.
Ma somigliantissimo a chi? Nessuno avrebbe potuto dirlo...
Gli altri pittori crepavano dalla rabbia.
"Bella forza!“- dicevano- “Anch’io saprei fare ritratti somigliantissimi d’ignoti.”...
Era l’uovo di Colombo. Ma prima di Antonello nessuno ci aveva pensato.
Intanto Antonello aspettava i clienti.
Arrivava un tale.
“Desidero mantenere l’incognito”: gli diceva, invece di presentarsi. E si metteva in posa.

I guai cominciavano al momento di pagare il ritratto.
Me l’ha da pagare, pensava Antonello, una volta partito il cliente a lavoro ultimato, ma dove lo pesco? Non sapeva nemmeno l’indirizzo.
La moglie aveva un diavolo per capello.
“Anche tu, “ gli diceva “ benedetto uomo: vai a specializzarti proprio in ritratti di ignoti !...”
Una volta si presentarono un vecchio signore ignoto e un giovinotto suo figlio a chiedere d’essere effigiati.
Eseguiti i ritratti. Antonello scrisse, sotto quello del vecchio: Ritratto d’Ignoto; e sotto l’altro: Ritratto di figlio d’Ignoto.
Apriti cielo. Esposti i quadri, padre e figlio volevano linciare il pittore.
La moglie del vecchio signore querelò Antonello per diffamazione".

(Achille Campanile, “Vite degli uomini illustri”)




Gli occhi dell'immagine sono quelli dell'Ignoto  del Museo di Cefalù 

lunedì 8 ottobre 2012

Borsa e tulipani








Dorme il mulino a vento
sotto la luna d'argento.
Dorme l'olandesino
nel suo letto piccino.
Parlano d'amore i tuli
tuli, tuli, tulipan
mormorano in coro
i tuli tuli tulipan
...



Così cantavano, nel 1940, tre sorelle di origine olandese, il trio Lescano. Nella canzone che parla dell'Olanda, di mulini a vento, di lune "come formaggio", i tulipani sembrano rappresentare l'immagine perfetta della serenità.

Ma non bisogna lasciarsi ingannare: quel fiore, apparentemente così rassicurante, nasconde, in realtà, un passato tumultuoso.
Quel fiore è stato capace di suscitare passioni furibonde e di portare alla rovina intere fortune.
Quel fiore fu protagonsta della prima bolla speculativa della storia, quella che si usa chiamare "tulipanomania" e che è stata analizzata da illustri economisti, trattata in saggi storici e, perfino, narrata in libri gialli, d'amore e d'avventura.
Non male per il tuli-tuli-tulipan!

Fin da quando arriva in Europa, importato da Istanbul, alla metà del Cinquecento, il tulipano, viene accolto con una grande curiosità: si favoleggia che sia l'ornamento più pregiato dei fastosi palazzi del Gran Sultano e il dono destinato alla sua favorita.
Ovunque suscita entusiasmo e meraviglia, dalla Francia all'Austria, ma il paese dove diventa una vera e propria mania è Olanda. I rigorosi e pragmatici olandesi, fino ad allora ritenuti alieni da ogni frivolezza, persero la testa per quel fiore favoloso. Riuscirono a farlo adattare al terreno sabbioso e al clima nordico e cominciarono a crearne e coltivarne varietà sempre nuove, ribattezzandole con nomi altisonanti di eroi e condottieri.
La richiesta di tulipani era enorme. Chiunque avrebbe voluto averne nel proprio giardino. Per i ricchi borghesi, poi, erano diventati uno status symbol, un emblema irrinunciabile di lusso e di eleganza.

I prezzi s'impennarono, soprattutto quando cominciarono a comparire tulipani di colori mai visti, i cui petali erano screziati e variegati come fiamme. Oggi sappiamo che quelle colorazioni erano dovute a un virus (il cosiddetto virus del mosaico): era impossibile riprodurli e, perciò, erano rarissimi 
Per averne uno così non si badava a spese.

E non erano solo i ricchi a ricercarli.

Per tutti, dai contadini, agli artigiani, agli operai, alle persone meno agiate, i bulbi di tulipano diventarono un miraggio di ricchezza.
Si erano convinti che i prezzi avrebbero continuato ad aumentare e che i profitti sarebbero  stati sempre altissimi. 



Le compravendite avvenivano dappertutto, nei mercati, nelle neonate  borse valori, negli uffici dei notai e, perfino, nelle taverne, dove compratori e acquirenti si riunivano nei "circoli dei tulipani", tra tavoli fumosi e ingombri di bicchieri di birra. Tutto era oggetto di trattativa: dai soli atti di acquisto, i cosiddetti "tulipani di carta", alla pura possibilità di piantare bulbi.
La speranza era di arrivare a commerciare una rarità, come il famoso "Semper augustus", dai petali screziati bianco e cremisi e di guadagnare i 6.000 fiorini del prezzo record che aveva raggiunto. Davvero tanti, in un periodo in cui un'intera famiglia poteva vivere un anno con appena 300 fiorini e in cui un dipinto, come la "Ronda di notte", di Rembrandt, sarebbe stato pagato soltanto 1.650.
Gioielli o opere d'arte- si diceva- non erano nulla in confronto ai tulipani.

Nel 1634 la speculazione raggiunse il culmine 
I documenti parlano di case e di terreni, di mucche, di cavalli, di carrozze, di interi raccolti di cereali o di arredi completi, che passavano di mano in mano per l'acquisto, a volte, di un solo bulbo. C'era chi, nella speranza di un guadagno che gli avrebbe cambiato la vita, investiva ogni suo avere.
I più avveduti cominciarono a pensare che così non poteva durare: era una follia. Negli scritti e nelle immagini che circolavano si avvertiva un'inquietudine crescente.


In questo dipinto di Hendrik Pot, Flora, la dea dei fiori è seduta, con le braccia piene di tulipani, su un carro. Alcuni dei passeggeri indossano i cappucci dei folli o degli sciocchi: c'è un ubriaco e c'è chi si riempie la borsa. Il carro è condotto da una donna dai due volti, simbolo della frode ed è seguito dalla folla degli ingenui acquirenti di ogni ceto sociale.
Tutto è dominato dall'incostanza del vento, che ora spinge avanti il carro, ma che, altrettanto velocemente, può cambiare.

E, in effetti, il vento cambiò.
Fu nel febbraio del 1637 che la "bolla" esplose. Inaspettatamente i prezzi si abbassarono, di colpo. Nell'arco di pochi giorni il valore dei bulbi si ridusse a poco o nulla. Tutti volevano vendere.
I giudici di Amsterdam equipararono la speculazione sui tulipani al gioco d'azzardo e dichiararono nulli i contratti stipulati.
Per chi vi aveva investito fu la rovina.

Il tulipano ritornò ad essere un "semplice" fiore, continuò ad adornare variopinti giardini ad essere coltivato nei campi e lungo i canali e finì per diventare, insieme agli zoccoli e ai mulini a vento, il simbolo dell'Olanda quieta e ordinata.
Il momento di "febbre" e di ingannevole euforia, di quello che fu definito windhandel, commercio del vento, era finito.
Almeno per i tulipani.




Il libro di Mike Dash, La febbre dei tulipani, BUR 2008, tratta in dettaglio della "tulipanomania"

lunedì 1 ottobre 2012

Le "Très riches heures du Duc de Berry": Ottobre





Siamo al primo d'ottobre: decimo mese dell'anno e decimo foglio delle "Très riches heures du duc de Berry". 
Come sempre, nella lunetta in alto, sono raffigurati i segni del mese, la Bilancia e  lo Scorpione, mentre il carro del sole transita nel cielo. Al di sopra, nei semicerchi concentrici, sono indicate le fasi lunari e la durata dei giorni.  


Tutte le volte che stacco un foglio di questo straordinario calendario provo la stessa sensazione di sorpresa e di meraviglia. 
Tutte le volte si compie una magia: basta guardare la miniatura per avere limpressione di essere trasportati da una macchina del tempo, attraverso i secoli, fino a  una limpida giornata d'ottobre degli inizi del Quattrocento. 
Ed ecco che ci troviamo là, a osservare le attività agricole che si svolgono nelle proprietà del duca di Berry.  
Il colore dominante è il bruno della terra arata che ha preso il posto del giallo del grano maturo dell'estate o delle calde tinte delle vigne e dell'uva appena vendemmiata del mese di settembre
Ormai è autunno pieno e i campi sono pronti per la semina. 

Un contadino, con una tunica azzurra,  sparge i semi contenuti nel  sacco  bianco che porta a tracolla.
Nel campo alle sue spalle, un altro contadino, abbigliato in rosso,  conduce un cavallo, coperto da una bianca gualdrappa.
Sta tirando un'erpice appesantito da una pietra, un attrezzo indispensabile per spezzare le zolle e  preparare il suolo. 
Nei campi più lontani uno spaventapasseri serve ad  allontanare gli uccelli, che, altrimenti, come quelli in primo piano, potrebbero approfittare per beccare i semi  sparsi per terra. 


Sembrerebbe una scena  ambientata in aperta campagna e, invece, siamo alle porte di Parigi. A confermarlo è la gigantesca mole del candido edificio che domina lo sfondo. 
Il punto di vista, da cui lo stiamo  guardando, non può essere che una delle finestre della residenza parigina  del duca di Berry, il palazzo di Nesle. 
Così il duca lo poteva osservare, nel lusso ovattato dei suoi appartamenti, nelle giornate chiare dellautunno.

Quellabbagliante edificio è niente di meno che il palazzo reale, il Louvre, la sede della corte di suo fratello, il re Carlo V, raffigurato così com'era  agli inizi del Quattrocento. 
Un complesso gigantesco con i lussuosi appartamenti destinati ai signori, le sale di rappresentanza, i cortili, le torri, i tetti di grigia ardesia, le banderuole al vento e le robuste mura di cinta.  
Il Louvre, allora, era il simbolo del prestigio del re. Era il segno più evidente della  potenza e della solidità della famiglia reale, messa in crisi, proprio in quegli anni,  da una guerra incessante. Talmente lunga da passare alla storia come la guerra dei cento anni. 
Eppure, come al solito, nessuna paura sembra  turbare l'atmosfera serena della miniatura: all'ombra delle mura fortificate i nobili della corte  passeggiano tranquillamente o conversano lungo la Senna, mentre le barche attraccate  sembrano attendere chi voglia di concedersi lo svago di una gita sul fiume. 

La scena è divisa in due parti, così com'era nettamente separata la società del tempo: in alto il re e l'aristocrazia, in basso i contadini. I due mondi, diversi e apparentemente contrastanti, sono rappresentati uniti, nell'armonia di una stessa atmosfera rarefatta, illuminati dalla medesima luce azzurra e cristallina del cielo di lapislazzuli. 

Gli autori della miniatura, i fratelli de Limbourg, hanno saputo unire particolari estremamente realistici (labbigliamento dei contadini, i solchi dei campi, le ombre portate dei personaggi in primo piano) all'irrealtà di una favola senza tempo. 
Come dice uno dei più grandi studiosi delle "Très riches heures", Millard Meiss: "Nessun pittore potrebbe eguagliare la perfezione delle loro superfici liscie, dei loro colori limpidi e della loro complessa semplicità. La loro arte è in grado di catturare la bellezza effimera e delicata di un fiore appena aperto".

Ancora una volta, hanno compiuto il loro incantesimo.