giovedì 30 agosto 2012

Aksell Gallen-Kalella: sul lago incantato





Sarà stato il caldo di questo agosto, saranno stati i post sull'Estonia pubblicati nel blog di un'amica, fatto sta che, mai come in questo periodo, mi sono sentita attratta dagli ampi e aperti paesaggi del Nord.

E che questo sia un paesaggio nordico non c'è dubbio.  Il grigio, il blu, la luce chiarissima evocano, subito, la bellezza fredda e pura di certi spazi scandinavi:


Solo la massa scura delle rive  boscose e una piccola isola  interrompono la superficie liscia dell'acqua cristallina  di un lago, segnata da lunghe scie argentate e appena increspata dal vento.
I riflessi bianchi delle nuvole, la luminosità quasi abbagliante, la severità, il silenzio  e la maestosità del luogo suscitano un sentimento di sospensione incantata. Rendono labile il confine tra sogno e realtà. 
Siamo nel 1905, sul lago finlandese di  Keitele, dove il pittore Akselli Gallen-Kalella (1865-1931), alla ricerca di nuovi orizzonti e di  territori sempre più isolati, si è fatto costruire, in mezzo ai boschi, una casa-atelier, lontana da ogni centro abitato.
"Ho scoperto il posto più adatto al mio carattere. -scrive nel suo diario- Qui siamo completamente soli, non ci sono strade, la luminosità del cielo e la magia delle foreste hanno un'intensità, che non ho mai trovato altrove".
In questa solitudine, si fa affascinare dalla riscoperta delle leggende  della sua terra, come l'epopea di sortilegi e di avventure del"Kalevala".
Nei suoi paesaggi rimane un'eco della magia di quei miti, tanto che c'è chi ha visto nelle scie, che solcano l'acqua del lago del dipinto, una traccia del passaggio della barca incantata dell'eroe dell'antico poema.
Gallen-Kalella è stato uno dei più importanti artisti finlandesi: amico di un musicista come Sibelius, protagonista della lotta di indipendenza della Finlandia dalla Russia e aggiornato su tutti i movimenti artistici europei.
Una recente mostra a Parigi, al Musée d'Orsay, ne ha ricostruito tutto il percorso artistico (QUI è il link).
Un pittore, certamente, interessante.
Ma, in qualche modo, l'emozione che provoca quest'immagine può anche  prescindere dalla conoscenza  dell'autore.
C'è, in questo dipinto, un'intensità profonda che  induce alla soggezione e al rispetto.  Mi ha riportato all'atmosfera di certi paesaggi nordici, che ho incontrato nei miei viaggi,  quando si ha l'impressione che la terra finisca, che rimangano solo acqua, luce e cielo e che qualcosa di sacro ci circondi.
Un'emozione intensa e  difficile a esprimere.
A volte commenti e parole  possono essere superflui  e, allora,  è meglio lasciarsi andare alla suggestione  dell'immagine, accompagnata, magari, dalla musica.
E ognuno può trovare la colonna sonora più adatta.
Per me,  è stato il suono puro e nitido del sassofono di Jan Garbarek (QUI è il link)






"Il lago Keitele", olio su tela, cm 53x66, è conservato alla National Gallery di Londra

venerdì 24 agosto 2012

Sophie Calle e l'arte di superare una delusione d'amore





In questi giorni ho pensato molto a come può finire un amore. Niente di personale (per fortuna), né tanto meno l'idea di trasformare "Senza Dedica" in una posta del cuore (anche se...).

Tutto nasce da una bella recensione nel blog amico di Scarabooks di un libro di Marcelle Sauvageot "Lasciami sola" (QUI è il link)
Una lettera d'addio, il dolore, un testo limpidissimo e sofferente.
Una maniera di vivere la fine di un rapporto, ma non l'unica.

A tutti (o quasi) è capitato, in amore, di essere lasciati. Con una lite, una telefonata, una lettera, un SMS, perfino un telegramma. Ed è sempre un trauma.
C'è chi piange tutte le sue lacrime
C’è chi scrive lettere di rimpianto e di dolore.
C’è chi si rifugia nella consolazione degli amici, chi si dà ai viaggi, chi mangia chili di torta Sacher.
C’è chi, come Sophie Calle, sulla sua delusione d'amore, crea un’opera d’arte.


Sophie Calle è una delle figure di spicco dell’arte contemporanea francese.
Da anni la sua specialità è quella di abbattere le barriere tra pubblico e privato e di fare della sua vita, dei suoi momenti più intimi, il materiale delle sue opere
Può fotografare il sonno degli ospiti (si spera consenzienti) che si fermano a casa sua, può ingaggiare un investigatore e pubblicare tutta la documentazione che ha raccolto su di lei, può fare di se stessa il personaggio di un libro dell’amico scrittore Paul Auster o decidere di rendere pubblico un video, in cui assiste agli ultimi momenti di vita di sua madre.



Con una libertà insolente e impudica, fa in modo che ogni situazione, anche la più segreta, diventi un atto artistico.
Lavorando sulle sue esperienze di vita e imponendole, in qualche modo agli spettatori, cerca la loro condivisione: si può dissentire, ci si può commuovere, si può protestare, ma non si può rimanere indifferenti. Nella sua vita, come nelle nostre, c'è di tutto: l'amore, la felicità, il dolore, il lutto. E tutto viene esibito.


Anche a lei è successo di esser lasciata.
In maniera inattesa, via email
Un messaggio d'addio, ben scritto, educato, firmato G., con le solite giustificazioni, le inutile profferte d'affetto, l'inevitabile richiesta di rimanere amici, che termina con le parole" prenez soin de vous ".

Prendetevi cura di voi", come si usa tra francesi bene educati, che continuano a darsi del voi anche al culmine della passione amorosa.


E lei cosa fa, ci piange su?  Macché!
Lo rende pubblico, costruendoci sopra un'esposizione che, partendo dalla Biennale di Venezia del 2007, ha fatto il giro del mondo e ancora viene replicata e scrivendoci un libro dalla sfacciata e provocatoria copertina rosa shocking.
Il titolo? "Prenez soin de vous", ovviamente



L'idea è quella di chiedere a 107 donne di tutte le eta (dalla scolara delle elementari, alla pensionata) e di tutte le condizioni (dalla clown, alla veggente, all'artista...) di mettersi al suo posto e di commentare il messaggio d'addio.
Ed ecco che la lettera viene trattata in centosette modi diversi.

Tradotta, in codice a barre, in alfabeto braille, o in latino dalla latinista
Ridotta a origami dall'amica giapponese
Trasformata in sentenza dalla giurista
Sottoposta alla sessuologa che ritiene ormai inutile ogni prescrizione
Analizzata dal punto di vista lessicale dalla linguista
Interpretata come un testo talmudico dall’esperta in esegesi ebraica
O trasformata in cifre dalla contabile

Può diventare un cruciverba, con tutta la storia d’amore riassunta nelle definizioni orizzontali e verticali
Può essere rappresentata in un fumetto,
Ridotta a documento d'inchiesta dalla commissaria di polizia
O a bersaglio per la carabina di una tiratrice.
C'è la ballerina classica, che preferisce danzarla, come in un balletto,
O la danzatrice indiana, che sembra mimarla con movenze lente e aggraziate
C'è chi la lettera la canta, con voce da soprano, chi la suona con un accompagnamento rock

C’è chi la legge: grandi attrici, comme Jeanne Moreau, che la recita in una stanza semibuia, o Victoria Abril, che la declama da un letto che sembra una scenografia di Almodovar

Oppure è resa irresistibilmente comica, se declamata da Luciana Litizzetto, mentre taglia le cipolle in cucina.




E, finalmente, può essere lacerata e mangiata dalla pappagallina Brenda.



Centosette maniere di esporre il messaggio ai visitatori della mostra: i testi o le fotografie delle donne che commentano, mentre i video scorrono e voci differenti leggono, in maniera diversa, le stesse parole.
Centosette maniere di sentirsi complici.
Centosette maniere di esorcizzare il dolore.


Il messaggio di addio si frammenta in mille briciole, si depura, mano a mano che viene letto, trasformato, toccato.
Sfuma nella ripetizione dei gesti, dei rituali, diventa neutro: parole qualsiasi che non feriscono più. E, in fondo, in fondo, si arriva provare una strana e inaspettata simpatia nei confronti del signor G., che ha accettato di essere “cannibalizzato”, senza replicare (ed è a lui, ovviamente, che Sophie Calle ha dedicato il libro e l'esposizione).

Alla fine, ci si può interrogare sul ruolo consolatorio dell'arte, sui confini tra pubblico e privato, e anche se questa si possa considerare o meno un'opera d’arte.

Dopo aver visto la mostra, qualche tempo fa, ho cominciato a seguire, con grande interesse, il percorso artistico di Sophie Calle.
Ma, soprattutto, ho appreso una lezione su come superare una delusione amorosa.
Perché ho capito che la vendetta, in amore, è un piatto da consumare con l’ironia.




Due mostre di Sophie Calle si tengono attualmente in Francia, molto diverse, eppure tutt’e due emozionanti: una ad Arles con una serie immagini di persone, che, per la prima volta, vedono il mare. Nesssuna parola, nessun gesto (tutti sono ripresi di schiena) solo il rumore dell’Oceano e la commozione di condividere un momento irripetibile (QUI è il link)


L’altra mostra si tiene ad Avignone ed è dedicata alla morte della madre, Rachel Monique, ai gesti e ai rituali del lutto e alle ultime immagini, riprese, in un video, fino alla fine (QUI è il link)


sabato 18 agosto 2012

Rosalba Carriera: pastelli e cipria





Due immagini di dipinti, dal tono smorzato di certe  vecchie foto virate seppia, che ho ritrovato, per caso, in un cassetto.
Mi è parso che raccontassero una storia sommessa: il contrasto con i colori fragorosi, i suoni e i rumori frastornanti  di questi giorni d'estate era talmente evidente che, forse, proprio per questo, mi hanno incuriosito.

Il primo è un pastello con una gentildonna dall’apparenza intimidita  in abiti settecenteschi.
Quando l'ho vista, mi è parso subito che avesse un'aria familiare.
Mi è bastato pensarla in un sobrio tailleur e con un filo di perle, anziché in pizzi e crinoline, per ritrovare la fisionomia di una di quelle parenti affidabili, che compaiono negli album di famiglia, una di quelle "zie" di una volta, abituate a vivere riservate e in disparte.
Invece, è l'autoritratto della pittrice più famosa della sua epoca, celebrata in tutta Europa come "la regina di Venezia": Rosalba Carriera (1675-1757).




Al tempo del dipinto, ha una quarantina d'anni.
Una gran bellezza non lo è mai stata e lo sa. Sceglie, allora, di rappresentarsi così com'è, senza lusinghe, vestita con un'eleganza sobria, che non rinuncia, però, alla seta, ai merletti e neppure alla civetteria di un fiore nei capelli incipriati.
Sta mostrando, come se lo avesse appena finito, il ritratto della sorella Giovanna, la sua collaboratrice più fidata.
Il gesto è orgoglioso- il dipinto è destinato alla prestigiosa collezione dei Medici- ma l'atmosfera è di un grande riserbo.
Nessuna ostentazione: anche se allora, è all'apice della fama, preferisce  raffigurarsi con discrezione. I colori sfumati dei pastelli sembrano avvolgerla nella stessa leggera foschia di quel velo di cipria che, all'epoca, ovatta e ammanta tutto.
Soltanto a stento e ben nascosta, dietro la sua espressione seria e concentrata, si può intravedere la fierezza di chi sa di aver percorso una lunga strada.
Chissà che non ripensi ai suoi inizi a Venezia, una ventina d'anni prima, quando la sua abilità nel dipingere i coperchi d'avorio di quelle tabacchiere, che ogni gentiluomo elegante portava nel taschino, le ha aperto le porte del gran mondo.
Sono stati proprio i ricchi turisti stranieri, che affollano le calli e le piazze veneziane, gli acquirenti delle sue ricercate  tabacchiere, a rivelare  il talento di quella giovane modesta e silenziosa. Hanno scoperto in lei  una ritrattista nata, capace di usare, con rapidità e maestria, i colori a pastello.  
I maneggevoli bastoncini le consentono di dipingere ovunque, direttamente su carta, senza disegno preliminare, né pose lunghe e spossanti e di rendere le fattezze di un volto, come l'aspetto cangiante della seta o il candore spumoso delle trine.
Sfumati con abilità, possono diventare una sorta di lifting pittorico che spiana le rughe e i segni della pelle.
L'ideale per una clientela ricca e raffinata.

Rosalba è precisa e veloce: i suoi pastelli vanno a ruba.
Se si volesse vantare, direbbe, che  sono  diventati una moda, che da Venezia dilaga nelle capitali di tutta Europa. 
Potrebbe raccontare dei viaggi che ha fatto, con la sua scatoletta di colori, e dell'autonomia che lei, donna sola, si è saputa conquistare. Potrebbe anche esaltarsi per le tante onorificenze che ha ricevuto e per l'ammissione a prestigiose Accademia di pittura, pur praticando un genere considerato secondario come quello dei ritratti.
O divertirsi a citare i nomi degli esponenti  più brillanti della società mondana e cosmopolita che le sono sfilati davanti: aristocratici, prelati, ma anche attori famosi, artisti o ballerine, che lei ha imparato a intrattenere con conversazioni colte, condite  di musica e di letteratura.
Potrebbe rievocare il trionfo del suo soggiorno a Parigi  quando tutti  si sono messi in fila per avere un suo ritratto, da un pittore come Watteau, allo sdegnoso adolescente destinato a diventare Luigi XV.

Ce ne sarebbe da inorgoglirsi e da sfoggiare! Ma lei, no.
Se ha un vanto è quello di essere rimasta  una "dama onesta" che ha fatto carriera col suo lavoro. Nella sua vita, nessuno scandalo: non ha un passato turbolento, né ha mai suscitato passioni proibite.
Poche frivolezze: qualche ballo,  coperta  e quasi nascosta da un ampio domino nero,  rare feste, discorsi ammodo in qualche salotto buono. Lontana dalla fatuità, ma anche dal fascino sulfureo e scintillante, di quel Settecento stuzzicante e libertino, di avventurieri e dame di dubbia moralità, che le passa accanto. Lei continua a osservarlo dal di fuori, a illustrarlo con le sue tinte lievi e a descriverlo, ogni tanto, nel suo diario. 
Forse con la malinconia di un rimpianto.

Anche la seconda immagine è un autoritratto. 
Sono passati trent'anni dal primo. Ora Rosalba ha quasi settant'anni ed è rimasta sola, dopo la morte della sorella. È ritornata a Venezia e sa che i suoi occhi malati le impediranno, tra un po', di dipingere.
Stavolta si  raffigura in una posa classica, all'epoca di gran moda, con la testa cinta di una corona d'alloro, sotto le sembianze della "Tragedia".

 


Sembra che abbia  ceduto alla lusinga  di incoronarsi come una celebrità, sia pure sotto il pretesto di un travestimento letterario.  
La sincerità, con  cui si rappresenta, è, però, la stessa del suo primo autoritratto. Si raffigura, senza addolcire i tratti del volto, con i capelli bianchi e lo sguardo stanco e quasi perso nel vuoto.
Ma  con una grande dignità.
È con un estremo pudore che  ci offre la sua meditazione sullo scorrere degli anni, sul tramontare della fama e sulla sua solitudine.
Garbatamente e senza enfasi, ci parla  di malinconia e di vecchiaia, affidando, come sempre, le sue emozioni alle  sottili gradazioni  delle sue tinte.

E dimostra, da grande artista, che i sentimenti più intimi si possono raccontare senza alzare i toni, con la stessa levità dei colori pastello.

        




Un bel libro, da poco uscito, ripercorre la vita e la carriera di Rosalba Carriera:  V.Casarotto, Il segreto dello sguardo. Le memorie di Rosalba Carriera, prima pittrice d'Europa, Colla Editrice 2012.
 QUI è il link




       

sabato 11 agosto 2012

I pattini del reverendo



"Il faut être léger comme l'oiseau et non comme la plume" (P. Valéry)




Un inverno gelido. Lo sfondo di colline e di luce rosata. Su un lago ghiacciato, si staglia la sagoma nera di un gentiluomo in cappotto e cappello. Il volto, di profilo, guarda verso l'orizzonte e dal cappello si intravede una folta chioma grigia. Il bianco immacolato del colletto di una camicia spicca sullo scuro della veste.



Ecco, potrebbe essere un ritratto qualsiasi; se non fosse che il gentiluomo, con consumata abilità e senza perdere niente del suo aplomb, sta pattinando.


In realtà è un'immagine ben nota; un'icona riprodotta su poster, puzzle, borse, quaderni. La si trova perfino, come silhouette, sulle finestre della National Gallery of Scotland, dove il quadro è conservato.


Niente di più semplice- o almeno parrebbe- di un dipinto, in cui la rappresentazione sia  ridotta all'essenziale, senza niente di superfluo.
Eppure, guardandolo, si prova un leggero sconcerto, come di fronte a certi quadri di Magritte, dove gli elementi più quotidiani della realtà rimandano a una dimensione diversa.


Ma cosa c'è che non torna? Il soggetto, in effetti, non potrebbe essere più chiaro ed è tutto nel titolo: "Il reverendo Robert Walker che pattina"
Il protagonista, stando ai documenti, è un sacerdote presbiteriano (1755-1808), esperto teologo autore di prediche e di sermoni raccolti in impegnativi volumi.
Il pittore, invece, è uno dei più noti ritrattisti scozzesi, Sir Henry Raeburn (1756-1823). Quanto al luogo che è raffigurato esiste davvero ed è il lago di Duddingston vicino a Edimburgo.


L'unico elemento incongruo sono i pattini.
Perché- ammettiamolo- sarebbe più facile immaginare l'austero sacerdote ritratto tra i volumi del suo studio, oppure all'aperto in contemplazione del paesaggio, piuttosto che mentre scivola, con grazia, su un lago gelato.


Eppure, a fine Settecento, in Scozia, il pattinaggio non era solo uno svago. 
Lo Skating Club di Edimburgo, dove il Reverendo si era iscritto appena venticinquenne, era il più antico del genere, noto dappertutto per l'eleganza e l'abilità dei suoi pattinatori. I suoi iscritti si ritrovavano sul lago di Duddingston, vicino a Canongate, poco lontano dalla chiesa dove Walker officiava.
Lì, nella pratica del pattinaggio, si cimentava il fior fiore della società scozzese: raffinati e ben vestiti pattinavano insieme  avvocati, funzionari pubblici, commercianti, ufficiali dell'esercito o esponenti del clero.

Il Reverendo era riconosciuto come uno dei pattinatori migliori.
Gli avevano giovato gli anni dell'infanzia passata in Olanda, a Rotterdam. Il padre vi si era trasferito per occupare il posto vacante nella Chiesa scozzese e là pattinare d'inverno, lungo la fitta rete dei canali ghiacciati, era, per tutti i ragazzi, un'attività irrinunciabile.
La sua abilità gli avrebbe, certo, consentito di superare, senza probemi, le faticose prove di ammissione al circolo, come quella del saltare tre volte su tre cappelli messi l'uno sull'altro.
Ai suoi tempi, però, per entrare era richiesta solo la velocità. Ma non era poco.

La colta citazione latina,"Euro ocior", più rapido del vento, era il motto inciso nei medaglioni indossati con fierezza  dai membri del club.
E veloci bisognava andare.
Anche se non richiesta, era, comunque, apprezzata l'abilità nell'eseguire le figure complicate, descritte in"Skating" di Robert Jones, un libro sul pattinaggio appena pubblicato e subito diventato un testo di riferimento. E chissà che il reverendo non l'abbia letto e non si sia provato, magari di nascosto, a pattinare nell'elegante posa del "Mercurio volante", tratta niente di meno che dalla scultura di Giambologna, con un braccio e una gamba alternati  levati verso l'alto.

Nel dipinto, però, niente pose plastiche: il reverendo non ha più i venticinque anni di quando si è iscritto al circolo. È in età matura e gli è più consono farsi ritrarre mentre avanza sul lago nella più convenzionale posizione di marcia, con le braccia raccolte sul petto.

Le tinte sfumate dello sfondo contrastano con l'estrema accuratezza, con cui sono trattati, non solo i particolari del volto (con la pelle arrossata dal freddo) ma anche quelli dell'abbigliamento (con la giarrettiera che si intravede al di sotto del cappotto) e con  la precisione con cui sono resi i legacci rosa e color cuoio dei pattini o i solchi  incisi  sul ghiaccio.
La giornata sembra gelida e nessuno turba la serena concentrazione del pattinatore: veloce ed elegante, scivola silenzioso sul lago.
Il fascino del dipinto sta tutto qui:  nel contrasto tra il ruolo del protagonista, messo in risalto dalla veste scura e austera  e la levità con cui pare avanzare sulla superficie gelata.

Ha la gravità di un uomo di Dio e la disinvoltura di un ballerino, con il sorriso appena accennato sulle labbra.
Grazia, leggerezza e, forse, un pizzico di humor, fanno di un ministro presbiteriano di più di due secoli fa un uomo capace ancora di sorprenderci.






Del reverendo pattinatore tratta il libro "The Skating minister" di L.Gladstone-Millar e D. Thompson, National Gallery of Scotland 2005.
Recentemente il reverendo è stato al centro di qualche polemica: è stata messa in dubbio l'attribuzione del dipinto al più famoso pittore scozzese, Henry Raeburn, ed è stato proposto il nome di un quasi sconosciuto artista francese, Henri-Pierre Danloux (1753-1809): il link è QUI


domenica 5 agosto 2012

Yves Klein: tutte le sfumature del blu.




C'è del blu nell'aria, in questi mesi. A giugno, nel cielo di Nizza, sono stati fatti volare mille palloncini blu. Di fronte al museo di Anversa sventolano grandi stendardi blu. Perfino le sfilate di moda, tra Parigi e Milano, si sono tinte di blu. E tutto per ricordare, a cinquant’ anni dalla morte, Yves Klein (1928-1962).


Nato a Nizza in una famiglia di artisti, Klein ha attraversato, come una meteora luminosa e folgorante, il cielo delle avanguardie del secondo Novecento. Scultore, pittore, scrittore, maestro di judo, jazzista: in appena trentaquattro anni di vita e in soli sette di attività, ha sperimentato di tutto e ha lasciato oltre mille opere.
Il suo nome, però, rimane legato a un colore, il blu, e a dipinti come questo:



"Artista zen" è stato definito per la sua passione per le filosofie orientali.
Un interesse nato con il judo, che ha praticato fin da bambino e che, da adulto, perfezionerà in un anno di studio a Tokyo.
Ma non gli basta: Klein è un inquieto, alla continua ricerca di un assoluto, che lo porta a incrociare i sentieri più diversi, dal pensiero esoterico dei Rosacroce, al cattolicesimo.

Di questo itinerario- "un percorso verso l'immateriale" lo definisce- vuole lasciare traccia nelle sue opere.
Per questo, sceglie, fin dall'inizio, di dipingere con un solo colore e di abolire ogni forma di rappresentazione: "Sono giunto al monocromo- scrive-  perché davanti a un quadro, non importa se figurativo o non figurativo, avevo la sensazione che le linee... il contorno, la forma, la prospettiva, non componessero altro che le sbarre della finestra di una prigione"
E lui vuole essere libero.

Nel 1956 espone, in una Galleria parigina, tele monocrome, dipinte nei colori primari. Il risultato non lo convince: gli pare che i visitatori siano distratti dalla cromia troppo variegata. Ha solo ventott'anni, ma sa quel che vuole. Capisce che, a questo punto, deve concentrarsi su un unico colore, quello capace, secondo lui, di portare chi lo guarda alla purezza della contemplazione.
Ma quale?
Per lui è il blu quello che più si avvicina all’infinito."Tutti gli altri portano ad associazioni psicologiche che possono distrarre- dice-  il blu, al limite, ricorda il mare e il cielo e tutto quello che c'è di più astratto nella natura."
Il blu, che, fin dagli sfondi di lapislazzuli, preziosi come l'oro, degli affreschi medioevali, è simbolo del trascendente e del mistero.
Il colore dei cieli di Giotto ad Assisi, che Klein ammira tanto.


C'è un problema, però.
Il blu che Klein trova tra i colori già pronti non lo soddisfa: ha l'impressione che nessuno sia abbastanza brillante.
E lui vuole arrivare alla perfezione, all’ ”espressione più pura del blu".
Che sia un testardo l'abbiamo capito e, per avere quello che vuole, non esita a sperimentare per un anno intero.


Alla fine, la soluzione la trova, grazie a un prodotto- Rhodopas M si chiama- una resina sintetica incolore che, diluita, è in grado di legare pigmenti senza alterarne la luminosità.
Ce l'ha fatta.
Quello che ha ottenuto è il "suo" colore, talmente "suo" che lo brevetterà con il nome di IKB, International Klein Blue.

Un luminoso blu oltremare, che non verrà mai prodotto industrialmente, ma che fornirà la materia e il titolo alle sue composizioni e rappresenterà, in qualche modo, la sua firma.
Con il "suo" colore, "immateriale e indefinibile", Yves le monochrome, come non gli dispiace esser chiamato, eseguirà circa duecento grandi tele, stendendolo con il rullo da imbianchino, fino a coprire uniformemente anche il bordo del telaio.
Gli pare che così  i suoi dipinti si trasformino quasi  in "elementi incorporei" e diano allo spettatore la sensazione di un'immersione completa nel quadro.

Nel 1957, nel pieno di quella che definisce- e come altrimenti?- la sua "epoca blu", decide di mettersi alla prova e di esporre, tutti insieme, undici dei suoi grandi monocromi alla galleria Apollinaire di Milano.
C'è da immaginarsi le reazioni dei visitatori nel vedere le sale riempite di quelle tele tutte uguali.
Altro che percorso spirituale! I più si annoiano, si sentono presi in giro e protestano. Le critiche fioccano feroci.
Ma non mancano gli apprezzamenti. Dino Buzzati scrive subito una recensione, tra ironica e ammirata, sul "Corriere della Sera" e la intitola - e c'è da dubitarne? - "Blu, blu, blu"'.

Anche se la mostra è un fiasco e vende solo due tele, serve a farlo conoscere.
Klein ora è sicuro di avere imboccato la strada giusta e continua a esporre i suoi monocromi in tutta Europa.
Ha ragione a non cedere: il suo 'total bleu' conquisterà critica, pubblico e mercato e le sue quotazioni si impennerano.

Ma non è certo, il riconoscimento commerciale che lo interessa. Anzi. In qualche modo è come se, piano, piano, il blu tracimasse spontaneamente dalle tele per invadere tutto.
Nella sua volontà ostinata di arrivare al trascendente attraverso l'arte e di usare il colore come una chiave per raggiungere l'anima, tingerà, del "suo" blu, tavole di legno, muri, piccole statue, oggetti di vario tipo. Ne impregnerà anche grandi spugne naturali che diventeranno straordinarie sculture. Arriverà, addirittura, nelle sue "Antropométries" a cospargerne, quasi fossero "pennelli viventi", giovani donne nude, che lasceranno le impronte dei lorio corpi su grandi tele bianche.
E perfino nella sua vita privata, nel matrimonio con la bellissima Rotraut, anche lei artista, organizzato secondo l’antico rituale dei cavalieri di Rosacroce, sarà la tinta dominante.


Insomma, una vita vissuta nell’ossessione del colore che, secondo lui, sa mettere d'accordo cielo e terra, materia e spirito: il blu Klein.

Un colore che affascina ed emoziona.

E mi piacerebbe immaginare che un po’ di questa passione sia nata nella sua infanzia a Nizza, nella luce calda del Mediterraneo, quando per la prima volta si è scoperto pittore, firmando con le dita, per gioco, come fanno i bambini, un pezzo azzurro e splendente di cielo.









Al Palazzo Ducale di Genova è in corso  una mostra sul rapporto tra Klein, il judo e il teatro: QUI è il link.
Per quanto riguarda il blu, una lettura indispensabile è il libro di Michel Pastoureau, Blu, storia di un colore, ed.Ponte alle Grazie 2002.
QUI è il link al blog, Deladelmur: gli ultimi post sono dedicati alla storia e alla composizione chimica dei colori dei pittori.



mercoledì 1 agosto 2012

Le "Très riches heures du Duc de Berry": Agosto






Oggi è il primo giorno d'agosto. 
Ferie o non ferie, poco importa: è il momento di staccare l'ottavo foglio del calendario delle "Très riches heures du Duc de Berry".




In alto, nella lunetta, i segni astrologici del mese, il Leone e la Vergine, circondano,  il carro del sole fermo nel cielo. 

Il grande castello di Etampes, con l'imponenza delle sue torri e delle sue ampie mura, domina la scena.   Il duca di Berry lo aveva acquistato, con l'intero borgo, nel 1400 e, da subito, era diventato uno dei suoi luoghi di soggiorno favoriti.


I contadini delle sue terre, sullo sfondo giallo vivo di un campo di grano maturo,  sono occupati nel lavoro della trebbiatura: dispongono i covoni che verranno raccolti dal carro, trainato da cavalli e già in parte carico, che li sta aspettando.





Chi ha caldo- e il  sole può battere forte anche nella campagna francese- cerca sollievo in un bagno improvvisato nelle fresche acque del fiume Juine, che scorre  lì vicino. Nessuna formalità: basta togliersi i vestiti  e immergersi per una bella nuotata. 
Uno svago semplice, uno dei pochi concessi ai contadini e che i ricchi aristocratici, committenti del manoscritto, si divertono a spiare con un pizzico di malizia.

Le dame e i cavalieri, nonostante il caldo dell'agosto, preferiscono, darsi a un'attività più nobile: quella della falconeria,  la caccia col falco o con altri rapaci. Il corteo dei cacciatori si snoda in primo piano. Gli abbigliamenti sono ben curati: nessuno ha sacrificato l'eleganza alla comodità. Le vesti, dai preziosi tessuti colorati di rosa, di blu e di grigio, sono tutte alla moda e i copricapi hanno un'aria di raffinata  bizzarria.



La dama che cavalca da sola,  in sella a un cavallo bianco bardato d'azzurro e d'oro, sfoggia nel drappo rosso che copre la sella e nella veste, i colori riservati ai membri della famiglia reale, tanto che è stata identificata con Bona d'Armagnac, nipote del duca di Berry. È la stessa che, nell'atmosfera  amorosa del mese di aprile, celebrava il suo fidanzamento con il principe Charles d'Orléans. 
La  prima dama a destra si sorregge, timorosa, al suo cavaliere, mentre la coppia, che chiude il corteo, si distrae  conversando. 
Il  falconiere, in testa al gruppo, con il lungo bastone che servirà ad aprirsi un passaggio tra i cespugli più bassi, si volta in attesa di ordini. I cani abbaiano eccitati per la partenza.

Dame e cavalieri sono pronti e tengono sulle mani guantate i piccoli rapaci, ben addestrati: sanno che quello che li attende è uno svago da re.
La falconeria si identificava, allora, con l'essenza stessa della signorilità e della cortesia. Era stata consacrata, come caccia destinata ai gran signori, fin dal XIII secolo,  quando l'imperatore Federico II ne aveva dettato le regole nel suo "De arte venandi cum avibus". 
Da allora il falco o i rapaci  erano simbolo di potere e di ricchezza, venivano allevati con cura e scambiati come  doni preziosi. Le regole per il loro uso erano strette: venivano assegnati a ciascuno secondo il rango e il ruolo sociale. L'aquila, per esempio, era riservata all'imperatore, il girfalco al re, il falco sacro ai cavalieri e il piccolo  smeriglio alle dame.
Il duca di Berry conosceva bene le norme: come tutti gli aristocratici del tempo, si dedicava con gran passione all'allevamento dei rapaci. Aveva al suo servizio falconieri esperti, con cui intratteneva una fitta corrispondenza sul carattere e sulla salute degli esemplari più preziosi. Praticare la falconeria era, certamente, un'attività costosa, ma per il Duca, che non badava a spese pur di essere un modello di lusso e di cortesia, era irrinunciabile.

Per questo ha chiesto ai miniatori al suo servizio, di inserire il corteo dei nobili cacciatori nella scena del mese dagosto, tradizionalmente dedicata, nelle rappresentazioni dei Mesi, alla raffigurazione della trebbiatura. 
I fratelli de Limbourg e i loro collaboratori lo hanno accontentato. Nella pagina miniata la scena del lavoro dei contadini, con il loro bagno ristoratore nel fiume, è rimasta sullo sfondo, mentre, in primo piano, i gesti aristocratici dell'antico rituale, insieme all'eleganza rarefatta delle posture e delle vesti, assumono il carattere di una favola.  
E sono consegnati all'eternità del sogno.