domenica 30 dicembre 2012

Eric Maillet e il "Generatore automatico di critica d'arte" ovvero Impara l'arte (2)





In un post dell'anno scorso avevo pubblicato i consigli del grande umorista Achille Campanile per chi volesse visitare, commentando in maniera adeguata, una mostra o un museo d'arte contemporanea (qui è il link).
Siccome la materia è vasta e il periodo delle feste particolarmente propenso a visite a gallerie ed esposizioni, mi è sembrato utile ritornare sull'argomento.



Se ne avete abbastanza di non sapere più cosa dire di fronte ad opere incomprensibili.
Se non volete rimanere ammutoliti davanti alle performances di artisti stravaganti. 
Se preferite evitare la figuraccia dei due sprovveduti in visita alla Biennale di Venezia del film "Vacanze intelligenti"  (qui ).
Insomma, se non volete passare per incompetenti, la soluzione c'è.

Basta una connessione a internet e consultare il "Generatore automatico di critica d'arte", realizzato nel 2005 dall'artista Eric Maillet per la home page del sito del "Centre national d'art contemporain" di Grenoble". Ed è fatta: tutti i commenti possibili sono là a disposizione. 

Ecco QUI il link.

Le frasi, sempre diverse, generate a caso, ma con una impressionante somiglianza con quelle di certe astruse prefazioni dei cataloghi, ripetute magari a mezza voce e con l'aria saputa, permetteranno a tutti di fare una figura brillante.
È vero che il sito non è in italiano, ma il francese o l'inglese possono, comunque, servire a darsi un certo tono.
Ed è sicuro che così il 2013 non ci coglierà impreparati

Buon anno a tutti!



Quello di Eric Maillet è un “generatore automatico” specializzato in critica d’arte.
Ma per chi voglia entrare nel mondo sorprendente dei generatori automatici, consiglio il divertente- e a volte geniale- Polygen (qui è il link) e, più connotato sulla politica e l’attualità, il sito Metilparaben (qui è il link)





domenica 23 dicembre 2012

La cattedrale di Amiens: i colori del Paradiso





Cercavo, in questi giorni un'immagine per rivestire il blog di un "abito natalizio", adatto alle prossime feste, quando ho trovato questa. 
È la foto dei portali della facciata della cattedrale di Nôtre-Dame di Amiens, così come si possono vedere in occasioni speciali. Il Natale è una di queste.


La cattedrale  di Amiens è una delle più alte espressioni del gotico francese. Iniziata intorno al 1220, era praticamente terminata nel 1288. 
Per la sua  ricchissima decorazione scultorea, sia all'interno che all'esterno  è stata definita un "libro di pietra", ma non si tratta di un libro qualsiasi. 
Le sue statue narrano, per immagini, a chi non sapeva leggere la storia sacra dell’Antico testamento e dei Vangeli. E illustrano ai fedeli i miracoli dei santi e dei martiri. 
La "Bible d’Amiens, la Bibbia di Amiens", è, appunto, il titolo di un libro, tradotto in francese da Marcel Proust, in cui il celebre critico d’arte John Ruskin descrive le infinite storie raccontate nella cattedrale (QUI è il link). 

Dei tre portali, quello centrale raffigura il Giudizio universale, quello a destra la vita di Maria  e quello a sinistra le vicende della vita di san Firmino, patrono di Amiens. 
Una selva di sculture, una miriade di racconti.
Ma la narrazione pareva svolgersi, allora, a monocromo, nell'unico colore della pietra.
E invece....
Invece nel 1999, in occasione del restauro della facciata, durante le operazioni finali di pulitura, si sono scoperte tracce evidenti della policromia che, in origine, rivestiva le sculture.

Le statue non erano grigie e uniformi, ma dipinte di tinte squillanti.
Era come passare da un film in bianco e nero a uno a colori. Come se l'antica cattedrale gotica perdesse di colpo la sua aria austera e si rivelasse allegra e gioiosa.
Per gli studiosi non c'era da stupirsi: era una prova ulteriore che quel Medioevo che, per anni, è stato descritto oscuro e buio era, in realtà pieno di colori e che le cattedrali erano "bianche” solo nella famosa definizione di Le Corbusier  (QUI è un link a un testo sulla policromia medioevale). 

E si trattava, come ad Amiens, di colori vivissimi. Per ottenerli si usavano, su un fondo bianco brillante, tutte le sfumature dei pigmenti di origine minerale che erano allora disponibili, dal cinabro, all'azzurrite, alla malachite e soprattutto, all'oro  che rifiniva le vesti, i capelli o i dettagli delle decorazioni dello sfondo. 
La vivacità della cromia era resa ancora più suggestiva dalla luce tremolante delle lampade a olio sospese ai grandi anelli, riscoperti, nel corso del restauro, sotto gli archi. Di notte, nel buio che avvolgeva la città, i portali della cattedrale, illuminati e sgargianti dovevano sembrare un'apparizione, che parlava al cuore e all'immaginazione.

Le tracce ritrovate, però, non erano tali da giustificare una ridipintura. 
Per restituire l’aspetto originario, si è trovato la soluzione di ricrearli con la luce. In determinati periodi dell’anno, i colori, dimenticati per secoli, rinascono intatti, grazie alla proiezione, attraverso uno schermo traslucido, delle immagini delle sculture, dipinte com'erano all'origine (QUI è un link al sito della cattedrale  con il calendario delle "proiezioni" )

Le sculture dei portali si mostrano di nuovo come dovevano apparire agli occhi di chi le vedeva otto secoli fa. 
E la meraviglia è la stessa.

L’effetto è quello di una vetrata o di uno smalto policromo. Le figure degli apostoli, dei santi, dei martiri, col loro incarnato rosa, il verde, il rosso il blu delle vesti, riprendono vita, come se gli artisti del tempo avessero di nuovo applicato a pennello le tinte di allora.

Secondo un  concetto dell'epoca, la luce e i colori non sono che un riflesso del divino. 
I portali di Amiens, con la luminosità della loro cromia vivace, rappresentavano un filtro, un passaggio tra il buio dell’esterno e lo splendore dell’interno, tra la miseria e la sofferenza del mondo reale e il desiderio di un  paradiso futuro. 
Nessun timore e nessun ammonimento, solo la gioia della contemplazione.
Per chi crede e per chi non crede, un invito alla speranza.






mercoledì 19 dicembre 2012

Il circo di Alexander Calder: tra leggerezza e ironia




"Mobile in alto/ stabile in basso/così è la Torrer Eiffel./ Calder è come lei/ ...Ingegnere ilare/ architetto inquietante/ scultore del tempo./ Così è Calder" (Jacques Prévert)



Come sempre, alla televisione, intorno a Natale, imperversano le trasmissioni sul circo. Piace a grandi e a bambini, rende più magica l’atmosfera delle feste: si dice. 
E allora mi adeguo anch'io e, visto che siamo all'inizio delle vacanze natalizie, parlo di un circo. Un circo speciale, però, con cui divertirsi, senza il disagio di vedere fieri animali compiere esercizi avvilenti. 
Eccolo qua:


Qui si respira ironia e leggerezza. 
Perché questo è il circo di un grande artista, Alexander Calder (1898-1976), un caposcuola dell'arte del Novecento, che ha rivoluzionato l'idea stessa di scultura, con i suoi ritratti in fil di ferro o i suoi "mobiles", capaci di muoversi al minimo soffio di vento (QUI è un link) 

Siamo a Parigi nel 1926 e Calder è appena arrivato dagli Stati Uniti; ha ventott'anni e proviene da una sofisticata famiglia di artisti.  
Bricoleur nato, ha scelto di laurearsi in ingegneria: i meccanismi che regolano il movimento lo hanno affascinato fin da piccolo. 
Solo più tardi si è iscritto all'Accademia d'arte e ha cominciato a lavorare, a New York, come illustratore di eventi mondani e sportivi; per qualche tempo ha curato le illustrazioni del circo Barnum, dove ha seguito con attenzione e coinvolgimento tutti gli spettacoli. 

Da sempre il circo è la sua passione. Per divertirsi, ha cominciato a fabbricarsene uno, tutto per se. 
Ci sono voluti due anni, una grande abilità manuale e, soprattutto, fantasia e pazienza, prima di completare il tendone, la pista e tutti i personaggi: acrobati, funamboli, clown, domatori, cavalli, elefanti, leoni e ballerine. 
Più di duecento figurine: una settantina tra persone e animali, novanta accessori (tende gabbie, trapezi, reti...) e più di trenta strumenti musicali. 

Ha realizzato tutte le sculture in materiali di recupero: legno, fil di ferro, bottoni, carta, tappi di bottiglia, spago, barattoli di latta, stracci. 
E tutte si possono muovere. 
Non è stato facile: in un libro delizioso riassunto QUI spiega come abbia fatto.

Ha cominciato a lavorare al suo circo in America e lo ha finito a Parigi e ora, nel suo atelier di Montparnasse, lo spettacolo è pronto a iniziare.
Grazie alle fotografie, possiamo immaginarcelo, robusto, capelli e baffi neri, in maglietta e salopette, mentre, inginocchiato sul pavimento, prepara i due metri di pista in panno rosso e alza il tendone. 
Dalle cinque valigie, che si porta sempre dietro, estrae, mano a mano, tutti i suoi artisti in miniatura, e mette sul grammofono un’allegra marcetta.
Gli basta pronunciare, col megafono, la formula di rito: "Signori e signori, lo spettacolo ha inizio" perché  il piccolo mondo magico prenda vita.
È lui che interpreta  tutte le parti, cambia tono di voce dal basso al falsetto e commenta lo spettacolo come un provetto imbonitore. 
Soprattutto, da burattinaio esperto, muove i sofisticati meccanismi che azionano i piccoli ingranaggi e, per tre quarti d'ora, manipola i fili, le leve e le molle dei suoi attori. 
E li fa muovere tutti, scandendo, col fischetto, il susseguirsi dei numeri.

Ecco che il cavallo trotta, i trapezisti volano sulle corde, il leone, un po' mesto, ruggisce, i clown fanno divertire e il cane ammaestrato salta a comando. 
Lo spettacolo, che sembra improvvisato, è studiato in ogni minimo dettaglio, perfino negli inconvenienti o negli infortuni. Gli animali sporcano la pista con i loro bisogni e, subito, Calder si affretta a pulire.
Il lanciatore di coltelli, forse per l’emozione, trafigge la sfortunata partner e i piccoli efficenti barellieri intervengono immediatamente a portarla via. 

Intanto, in pista entrano gli elefanti e, perfino, un cow boy che sembra uscito dritto dritto dallo show western di Buffalo Bill. 
La ballerina, la sexy Fanni, turba i pensieri degli spettatori con la sua danza del ventre. 
Insomma in questo "circo Barnum dei lilipuziani", com’è stato definito, non manca nulla, nemmeno un cartellone pubblicitario a grandi lettere dorate.

Fin dall’inizio è un trionfo. 
A richiesta, si replica più e più volte. 
"Le cirque" diventa rapidamente per Calder una specie di biglietto da visita e i suoi piccoli circensi un'attrazione irresistibile. 
Lo vogliono vedere tutti: per entrare nel suo studio, si fa la fila. 
Artisti come Mirò, Legér, Duchamp, Mondrian, Man Ray, sono spettatori entusiasti. 

Un giornale dell’epoca scrive che "gli spettacoli del circo Calder, accompagnati dai suoi commenti divertenti, lo hanno reso, improvvisamente, popolare. 
Ormai è noto come il re del fil di ferro e dello spago".
L’esperienza sarà fondamentale per la sua carriera, un vero e proprio laboratorio nel quale esplorare tutte le idee della sua arte futura: amore per il movimento, colori puri, forme basilari, gusto del gioco e della leggerezza, uniti a una grande precisione tecnologica.
Calder, mai stanco di aggiungere nuovi personaggi, lavorerà  al circo, per tutta la  vita, trasportandolo, con le sue valigie, dalla Francia agli Stati Uniti. 
Lo scrittore Thomas Wolfe, che lo ha visto esibirsi a una festa, lo descriverà, divertito, in uno dei suoi romanzi.
Ma, ovviamente, i racconti e le fotografie non sono sufficienti: il circo- si sa- bisogna vederlo.


Ed ecco che, in un filmato del 1955 "Le grand cirque, 1927" di Jean Painlevé, Calder, invecchiato e già artista famoso, si esibisce per noi, col suo insieme di grazia, leggerezza e allegria. 
Non ci resta che metterci comodi, aspettando che, ancora una volta, il banditore dia inizio allo spettacolo.

E che la magia cominci:





Un filmato più lungo fu realizzato nel 1961 da Carlos Vilardebo: lo trovate QUI e QUI.
Il circo Calder è oggi conservato al Whitney Museum di New York.



domenica 16 dicembre 2012

Paolo Conte: io e l'Avvocato





Proprio in questi giorni tanti  (troppi) anni fa l'Avvocato è entrato a far parte della mia vita.




Un sera, a Bologna, si esibiva- allora non era noto come adesso- con un pianoforte e con un piccolo gruppo di musicisti.
Ero andata là non per ascoltare musica, ma trascinata dall'onda di un innamoramento. 

Ed ecco che nel buio d'improvviso il palco si illumina e Paolo Conte, l'Avvocato, comincia a cantare.
Era - mi ricordo- l'epoca della "Verde Milonga".
Quella voce aspra, dura, arrochita mi trasportava in un altro posto, in un paese di provincia simile al mio, un paese con le drogherie di una volta, con le etichette delle spezie che facevano sognare paesi esotici, con una balera dove immaginare il Sud America, con la solitudine del bar Mocambo.....

A poco a poco il suo mondo diventava il mio. 
I suoi sogni di stelle e di jazz si mescolavano con i miei sogni. 
Quella voce entrava dentro di me, mi cullava con i suoi racconti, mi restituiva atmosfere che avevo vissuto o sognato.

Quella voce non mi avrebbe più abbandonato




chi bu bu du, du du :
http://www.youtube.com/watch?v=vQ2GYuLdkoc&feature=related


 

venerdì 14 dicembre 2012

I ritratti di scrittori di Gisèle Freund: il volto e l'anima





"Il  disappunto che proviamo davanti alle nostre fotografie nasce dall'assurda convinzione di conoscerci" (G.Freund)


Da sempre sono attratta dalle fotografie che ritraggono gli scrittori, come se conoscerne i tratti del volto mi facesse capire qualcosa di più sugli autori dei libri che ho amato. 
Per questo sono rimasta affascinata dalle foto di Gisèle Freund, scattate  tra il 1933 e il 1939 ed esposte in una mostra, organizzata, l'anno scorso, a Parigi dalla Fondazione Pierre Bergé-Yves Saint Laurent: "L'oeil frontière". 
Ne ho scelte solo alcune da pubblicare, rintracciandole su internet, e la scelta non è stata facile. Nessuna è banale e tutte sono capaci di evocare le sfaccettature complesse di una personalità.



Ha appena ventidue anni, Gisèle Freund, ed è ancora una studentessa quando si rifugia a Parigi, nel 1933, scappando dalla Germania nazista:  la sua origine ebraica e il rullino di foto che ha scattato di nascosto a testimonianza della violenza  della polizia contro gli studenti, l'hanno costretta alla fuga.
Non ha passaporto, non  sa il francese, ma sa fotografare, fin da quando il padre, per il suo quindicesimo compleanno, le ha regalato una Leica. 
Alla prestigiosa facoltà di Sociologia di Francoforte, dove si è iscritta,  ha scelto, non a caso, una tesi sulla "Fotografia francese del XIX secolo".

Arrivata a Parigi, comincia a guadagnare qualche soldo,  adattando a  camera oscura una stanza d'albergo e dedicandosi a un genere che sente particolarmente congeniale, quello dei ritratti.
I suoi clienti sono i commercianti o i negozianti del quartiere.

La sua passione, insieme alla fotografia, è, da sempre, la letteratura. 
Il caso (o il destino, che poi è la stessa cosa) la porta, in una fredda giornata di marzo, sulla riva sinistra della Senna, in rue dell'Odéon. 
Là- come ricorda lei stessa-  tra un negozio di antiquariato con un gatto acciambellato su una sedia Luigi XIV e una latteria in cui sono ammucchiate scatole di formaggi, scopre, al numero 7, la porta di una libreria, tutta dipinta di grigio, sovrastata da una grande insegna "Maison des amis du livre. Societé de lecture". Il richiamo è irresistibile. 

Entrare là sarà la sua fortuna. 



La proprietaria, Adrienne Monnier, è un gran personaggio. 
Lettrice raffinatissima e cuoca eccellente, pubblica, a sue spese, una rivista, per cui scrivono i maggiori esponenti dell'avanguardia letteraria francese. 

Le due diventano subito amiche. 
Sarà Adrienne a presentarle Sylvia Beach, che, all'epoca, gestisce, proprio sull'altro lato della strada,  niente di meno che la  "Shakespeare & Co.", la mitica libreria, frequentata da tutti gli scrittori anglofoni (e no) di Parigi, di cui hanno parlato le mie due amiche blogger-bibliofile (qui e qui).

"Non esiste un volto più affascinante di quello di una persona capace di creare”: aveva scritto Gisèle. 
Adrienne Monnier e Sylvia Beach le forniranno la chiave per entrare nel mondo chiuso degli scrittori. Poi sarà il "passa-parola"ad assicurarle i contatti.


Il primo a farsi ritrarre è André Malraux che, giusto l'anno prima, ha vinto il premio Goncourt con il suo libro "La condizione umana". 
Fotografato sulla terrazza del suo piccolo appartamento, sfoggia un'aria da romantico rivoluzionario, con una sigaretta accesa tra le labbra, i cappelli lunghi spettinati dal vento e il volto imbronciato.

Niente studio, niente pose o ritocchi: così a Gisèle piace ritrarre i "suoi" scrittori. 
Gli unici consigli che dà sono quelli di indossare qualcosa di chiaro e di radersi bene, prima di iniziare a scattare.


Per ritrarre  James Joyce, comincia a usare la pellicola a  colori, con una tecnica, messa a punto da Kodak e Agfa appena due anni prima. 
I colori, che ora  ci sembra diano alle foto un effetto acquerello, erano poco saturi e evanescenti già nelle prime stampe. 
Comunque a Gisèle piacciono e le sembra che, rispetto al bianco e nero, diano l’aria di una maggiore verità.

Joyce, tra gli appassionati e i letterati era, allora, già un mito. 
Stanco e malato si trovava a Parigi per presentare "Finnegans Wake". 
Malgrado non stesse bene concede a Gisèle ben tre sedute. 
Lei scatta moltissime foto, in cui riesce a cogliere tutta la fatica e la malinconia dello scrittore.

"Un fotografo- dice- deve leggere un viso come si legge la pagina di un libro e deve essere capace di decifrare anche quello che è nascosto tra le righe"






Ed ecco l’immagine di Jean Paul Sartre.
È in giacca e cravatta, pipa in mano e libreria carica di libri sullo sfondo.
Lo sguardo, dietro gli occhiali tondi è assorto e riflessivo. Tutto è così ben accomodato da dare l'impressione di qualcuno che posi da intellettuale.





Colette, invece, è scapigliata, gli occhi e le labbra ben truccati, con una camicia rossa e l’aria da attrice tragica, mentre, assorta, sta scrivendo al suo tavolo di lavoro.


Gisèle Freund sceglie di  fotografare solo gli scrittori che ama. 
Quando va da loro- racconta lei stessa- non parla mai di come ritrarli ma dei lori libri, fino a sorprenderli nel momento in cui le pare rivelino, più liberamente, qualcosa di sé. 



A volte si concentra solo sul volto, a volte, invece, preferisce uno sfondo, fatto, comunque, di pochissimi elementi. 
Qui la grande mano rossa che spicca, quasi fosse un'insegna, fa risaltare il pallore di uno stralunato Jean Cocteau.

"Rivelare l'uomo all'uomo, creare un linguaggio universale, accessibile a tutti rimane per me il compito fondamentale della fotografia"- diceva Gisèle.







Il medaglione in gesso col volto di Giacomo Leopardi è messo quasi a confronto con quello liscio di un elegantissimo André Gide, che sfoggia un raffinato foulard di seta al collo e un'espressione grave e pensierosa.










Virginia Wolf, incontrata in Inghilterra, le appare in profilo sullo sfondo di un affresco della sorella Vanessa "fragile e luminosa come l'incanto stesso della sua prosa". 
Ma ne sa rivelare, nello sguardo vuoto e nel gesto nervoso, con cui tiene aperta la pagina del libro che sta sfogliando, tutta la segreta disperazione.





Il catalogo della mostra si chiude con questo ritratto.
Non così la vita di Gisèle Freund. 
Nel 1940  le truppe naziste arrivano a Parigi, Gisèle deve fuggire un'altra volta. La sua meta sarà l'Argentina e, poi, il Messico e gli Stati Uniti. Lavorerà per la "Magnum" con Robert Capa e per "Life", fino a diventare una leggenda della fotografia. 
I suoi ritratti di scrittori e di artisti faranno scuola.







giovedì 6 dicembre 2012

L'"Interno rosso": la poltrona di Matisse





Ci sono brani musicali che sembrano evocare immagini precise. 
Ieri, alla notizia della morte di quello straordinario jazzista che è stato Dave Brubeck (ne ho parlato qui), mi sono ricordata di un dipinto. 
Un quadro che mi dà la stessa sensazione di gioia e di calore della sua musica, capace di illuminare le giornate malinconiche, grigie di pioggia e di neve di questo inizio d'invernol'"Interno rosso" di Henri Matisse, ora al museo di Düsseldorf.

È uno degli ultimi dipinti che Matisse, esegue a olio, nel 1947: all'epoca ha settantott'anni e si affatica facilmente, soprattutto da quando gli esiti di un'operazione mal riuscita lo hanno costretto alla sedia a rotelle. Tanto che, da allora in poi, preferirà usare la tecnica meno stancante del decoupage (come qui). 


Una stanza con un medaglione in  terracotta appeso al muro, un tavolo blu su cui sono posati un vaso di fiori e un vassoio con delle mele rosse e, sullo sfondo, una porta con una persiana arancione, aperta su un giardino con una lussureggiante vegetazione mediterranea. 
Un interno, probabilmente, lo studio dell'artista sulla Costa Azzurra, a Vence, come parrebbe dal dettaglio del medaglione alla parete: è il ritratto della prima donna amata, la madre di sua figlia Marguerite, che Matisse usava tenere appeso nel suo atelier. 

Potrebbe essere un soggetto banale, una stanza qualsiasi. Invece, tutto è trasfigurato attraverso il  colore. Quel colore che  aveva affascinato Matisse dagli inizi della sua carriera e che aveva usato con tanta gioiosa violenza da essere qualificato, fin dall'esposizione al Salon del 1905, come "fauve, belva". Ormai è vecchio e, anche se ha assunto sempre di più un'aria compassata ed erudita, tanto da giustificare il soprannome di "professore" che gli era stato attribuito da studente, la sua allegria, la sua foga e la sua felicità di vivere e di dipingere non sono venute meno.  

È convinto che la sua pittura  non debba mai inquietare, ma dare una sensazione di entusiasmo e di piacere.
Allora, come in questo caso, copre con un caldo rosso carminio quasi tutta la tela e sottolinea le pareti della stanza con una serie di linee nere a zig-zag che formano una specie di tappezzeria o di carta da parati. 
È un motivo che serve a dare energia e dinamismo a tutta la scena:" voglio che ogni  superficie sia viva ed espressiva "-usava dire.

Non gli interessano ricerche spaziali o prospettiche, né, tanto meno, dare un'idea di massa e volume col chiaroscuro o con effetti di luce e d'ombra. 
Non si stanca di ripetere che tutto deve annegare in quel  "colore, che ancora più del disegno, rappresenta la vera libertà dell'artista".
Le sue sono tinte vivaci, spesso contrapposte se non addirittura dissonanti: rosso, blu, verde, giallo arancio. Ma il risultato è armonico ed equilibrato. 
Come nota uno scrittore e critico d'arte come John Berger "Matisse sbatte con violenza i suoi colori l'uno contro l'altro, come fossero dei cembali e ottiene l'effetto dolce di una ninna-nanna".
Come un musicista sa scegliere il timbro dei suoi strumenti, così Matisse sa selezionare l'intensità giusta dei suoi  colori per ottenere, come lui stesso dice, un'"armonia vibrante come quella di una composizione musicale". 

Vuole, da sempre, che la sua pittura sia "come una poltrona", comoda e piacevole, "in cui ci si possa riposare senza distrazioni, nè turbamenti". Un grande regalo per chi ne sappia godere.

Non ci resta che approfittarne, sedere e ascoltare, in sottofondo, la musica che, secondo me, più gli assomiglia.
"Take five" di Dave Brubeck, ovviamente.

QUI  è il link.






sabato 1 dicembre 2012

Le "Très riches heures du Duc de Berry": Dicembre




Ultimo mese dell'anno e ultimo foglio del calendario delle "Très riches heures du duc de Berry". Una pagina sorprendente, un soggetto diverso, da quelli, a cui la raffinatezza favolosa delle pagine precedenti ci aveva abituato.
L'anno si era aperto, a gennaio, con  un lussuoso banchetto offerto Duca, nell'atmosfera festosa della corte. Si chiude, a dicembre, con una scena cruenta.


Nella lunetta in alto, sono raffigurati i segni del mese, Sagittario e Capricorno, mentre il carro del Sole transita nel cielo. Al di sopra, nei semicerchi concentrici, sono indicate le fasi lunari e la durata dei giorni.
È  ormai inverno e le foglie dei fitti alberi della foresta sono secche. Il terreno è spoglio: qua e là è rimasto solo qualche arbusto. 

Sullo sfondo, si erge una serie di candide torri: fanno parte della gigantesca cinta muraria che racchiudeva il castello di Vincennes, voluto, nel 1364, dal fratello del Duca di Berry, l'allora re Carlo V. Era destinato a essere "la demeure de plusieurs seigneurs et chevaliers", dove passare le ore più liete della vita di corte. 


Stavolta non si tratta, dunque, di una proprietà del Duca, ma  del luogo dove era nato nel 1340,  terzo figlio del re di Francia. 
Dagli anni trascorsi a Vincennes aveva preso il gusto per gli edifici comodi e fastosi che vorrà per sé in ogni sua sede. Lì forse era nata anche la sua passione per il collezionismo, per cui avrebbe riempito d'oro, di gemme e di squisite oreficerie  tutti i suoi forzieri. 
La predilezione per i piccoli oggetti preziosi lo aveva portato all'amore per i libri miniati, un vero lusso da gentiluomini. Al punto che aveva preso al suo servizio i fratelli Ian, Pol e Herman de Limbourg per decorare le pagine del suo Libro d'ore. 
E così i miniatori avevano riempito i fogli dei mesi del calendario con le immagini dei suoi sogni di magnificenza e di una vita simile a una favola. 
Per tutto l'anno, avevano dispiegato, insieme, le rappresentazioni della vita della campagna e degli svaghi della corte. Col passare delle stagioni,  sullo sfondo dei castelli di proprietà del Duca, si erano avvicendati il gelo dell'inverno, il verde dei prati a primavera, il giallo del grano estivo o  i campi arati dell'autunno. 

Ora siamo all'ultima pagina e  lo stile elegante dei fratelli di Limbourg non può nascondere la violenza della scena. 

È il momento, in cui termina la caccia al cinghiale: il suono del corno (l'hallali) è il segnale della "curée", quando la spoglia dell'animale ucciso viene fatta dilaniare dai cani. A questo spettacolo cruento  non assiste nessuno dei raffinati aristocratici, che comparivano in tutte le altre scene. Ci sono solo i servitori, con le livree, dai colori araldici del duca, che controllano a stento l'impazienza della muta dei cani.

La rappresentazione non è inconsueta: ce ne sono anche esempi nella miniatura italiana contemporanea,  ma non fa parte dell'iconografia tipica di Dicembre, tradizionalmente legato, nei calendari dei Mesi, all'uccisione del maiale. Un soggetto, questo, che forse era parso troppo volgare alla raffinata mentalità del duca. 
La caccia, invece, era il passatempo favorito dell'aristocrazia e il cinghiale  uno dei trofei più ambiti. Alla corte del Duca era diventata un rituale che seguiva una tradizione antica.  Servitori  e cani ben addestrati avevano il compito di stanare la preda e di fiaccarla. A questo punto, il signore si avvicinava, scendeva da cavallo e  finiva l'animale, ormai allo stremo, con un affondo di spada.  
Affrontare da vicino il cinghiale inferocito era considerato  un segno di  coraggio degno solo di un nobile:  a dimostrazione di un aristocratico sprezzo del pericolo si praticava la caccia nel tardo autunno o nell'inverno, nella stagione degli amori, quando gli animali erano più aggressivi e il terreno, reso scivoloso dalla pioggia, era più difficoltoso. Superare tutte le insidie aveva, allora, una valenza simbolica precisa. 
Il cinghiale era l'emblema dell'ira e della lussuria, l'antitesi delle virtù cristiane: ucciderlo era segno di una vittoria contro il male e gli istinti più perversi. 

Neppure il velo del simbolo può, comunque, togliere alla scena la sua crudezza: è come se, dopo mesi di liete immagini di fiabe, alla  fine del calendario irrompesse la brutalità del reale. 

Erano tempi violenti quelli: la Guerra  dei Cento anni imperversava per città e campagne, ovunque c'era sofferenza, carestia e miseria. 
La peste, nello stesso anno, il 1416, avrebbe tolto la vita al Duca e ai suoi miniatori. 
Ma, nelle preziose illustrazioni dei mesi precedenti delle "Très riches heures", la vita vera non si rappresentava, la si lasciava fuori.  
Ora, il soggetto più crudo della miniatura di dicembre  fa capire che un'eco della realtà esterna è arrivata, comunque, a incrinare il piccolo mondo perfetto della corte di Berry. 
E non basta il tentativo di esorcizzarla, di ridurla a un'immagine astratta e lontana; non basta più a  evitare la consapevolezza che i sogni evocati nel calendario sono ormai finiti.





sabato 24 novembre 2012

Tra laghi e foreste: i dipinti di Tom Thomson




Qualche anno fa, uscì un bel film di Sean Penn,  "Into the wild": il grande e profondo Nord americano, con la solitudine e l'asprezza della sua natura, affascina un giovane viaggiatore, fino a provocarne la morte. 
È a questo film  che ho pensato, quando ho visto i paesaggi del canadese Tom Thomson (1877-1917). 
Come questo, per esempio:


Nella scena, illuminata dalla luce candida e fredda del Nord, i rami degli alberi in primo piano formano quasi una griglia di linee scure, che lascia intravedere l'acqua chiarissima di un fiume, mentre le foglie dell'autunno rivestono il suolo di un tappeto multicolore. 
Tutto è calma e silenzio: il pittore sa rendere l'incanto di un luogo solitario e dello splendore luminoso e effimero del passaggio di una stagione

Il dipinto è ancora più suggestivo, se si conosce la biografia dell'autore: la sua vita è un racconto che parrebbe uscito dalla penna di Jack London.
Nel 1914, quando comincia  a dedicarsi esclusivamente alla pittura, Thomson ha trentasette anni; vive a Toronto, dove si è trasferito giovanissimo e ha lavorato, come grafico in un'agenzia pubblicitaria, inserendosi in un gruppo di artisti vivaci e informati. 
Con loro ha scoperto non solo l'Art Nouveau, ma anche la pittura impressionista, Van Gogh e le stampe giapponesi. 
Insieme  a loro si è interessato all'arte europea e alla possibilità di creare un'arte nazionale canadese.

Thomson non è un grande parlatore: non gli piace discutere né di tecnica, né di teorie sull'arte.  
Si sa esprimere bene solo dipingendo e, da un po', ha trovato nella natura la sua fonte di ispirazione. Per questo ha lasciato il suo impiego e ha scelto di vivere  otto mesi l'anno nel parco naturale di Algoquin, in Ontario, un territorio disabitato e sterminato, grande quanto l'Olanda, dove si mantiene con lavori occasionali da guardiaboschi, taglialegna o da guida per i pescatori. 
Immerso in quella bellezza severa vive semplicemente, da solo, in una capanna di legno. 
D'autunno torna in città e va a stare in una pensione: là tappezza le pareti della sua camera con gli schizzi, dipinti a olio su piccole tavole di legno, che ha eseguito nei lunghi mesi, in cui è vissuto isolato. 
Da questi trae l'ispirazione per le sue grandi tele, piene di colori.

Come qui, dove emerge tutto il suo amore per le stampe giapponesi.

I nitidi contorni dei bianchi tronchi di betulla inquadrano il blu profondo del lago.

Il giallo, l'arancio e l'ocra delle foglie autunnali, appena cadute, accentuano il tono caldo e luminoso della composizione


Modesto quanto esigente con se stesso, Thomson è capace di buttare nel fuoco gli schizzi che non lo soddisfano e di esporre all'Ontario Society of Arts solo i pochi dipinti che giudica pienamente riusciti. Le critiche, comunque, non lo risparmiano: i suoi colori sembrano, ai più, fin troppo irreali. "Eppure- dice lui- sono quelle le tinte che ho visto!".
Solo gli spettatori più attenti colgono la qualità della sua arte, che rinnova, attraverso le influenze europee, il genere più tradizionale della pittura canadese di paesaggio.
Thomson è un uomo schivo e riservato. Non riesce a descrivere bene, a parole, gli scenari meravigliosi che l’hanno affascinato e nemmeno le difficoltà tecniche che ha incontrato per restituire su tela i suoi soggetti preferiti: i laghi, le foreste, ma, soprattutto, gli alberi e i giochi della luce e dei colori che cambiano col mutare delle stagioni. 
Sente che solo attraverso i suoi dipinti, con i suoi colpi di pennello e i suoi colori espressivi, è capace di rivelare tutte le sensazioni che quellla natura selvaggia gli ha suscitato. 
Le sue emozioni di fronte a quei paesaggi, che non si stanca mai di osservare, lo soverchiano, fino a lasciarlo senza fiato. L'unica maniera di comunicarle è la pittura.

Finisce per vivere sempre meno in città. 
Ogni tanto organizza delle gite con i suoi amici pittori, perché condividano le sue impressioni, ma, per lo più, preferisce la solitudine.


All'arrivo della primavera si affretta a  rientrare nei boschi per dipingere la neve ancora intatta.
Come qui, dove i tronchi scuri degli alberi con le loro ombre azzurre contrastano con i nitidi raggi luminosi riflessi su un terreno innevato di un candore abbagliante.
Per i rarissimi turisti che visitano il parco, Thomson è un personaggio misterioso, un eremita, più noto per la sua leggendaria abilità di pescatore  che per la sua attività di pittore. Non sanno che la sua è una scelta di vita.
La sua sensibilità e la sua empatia per quei territori austeri e affascinanti, lo ha catturato anima e corpo e lo spinge ad addentrarsi in zone sempre più  isolate. 
Alla ricerca di nuovi paesaggi da dipingere, parte per dei mesi in escursioni solitarie o esplora silenziosamente con  la canoa, le acque dei laghi e fiumi. 
Spingendosi sempre più lontano, fino a smarrirsi nell'immensità che lo circonda.

Nel luglio del 1917  la canoa, con cui era uscito per una delle sue lunghe escursioni sul  Canoe Lake, rientra vuota. Il suo corpo viene ritrovato una settimana dopo: le cause della morte sono tuttora misteriose. 
Aveva quarant'anni e, dietro di sé, una vita vissuta come desiderava, percorrendo e dipingendo quel territorio selvaggio che amava più di se stesso. Con una tale intensità da riuscire a trasmettere le sue emozioni fino a noi.




Nella sua breve e folgorante carriera Thomson  aveva dipinto quarantacinque tele. 
Questo  straordinario video ripercorre la sua attività: QUI è il link.