giovedì 27 ottobre 2011

Dosso Dossi: gli incanti di Melissa.




A quali magie è intenta la bella donna, sullo sfondo di un bosco illuminato dalla luce di un cielo tempestoso ?




Che sia una maga è fuori di dubbio.
Siede all'interno di un cerchio magico tracciato sul suolo e consulta una tavoletta con astruse formule cabalistiche, mentre accende una torcia da un braciere. 
Indossa una sontuosa veste di seta azzurro scuro e una sopraveste in broccato con disegni dorati su un fondo scarlatto.
Un turbante giallo a fili d'oro  le conferisce un tocco di fascino esotico.

Il primo ventennio del Cinquecento non è ancora finito, quando  Dosso Dossi (1486?-1542) esegue il dipinto, mentre lavora a Ferrara per gli Este  (ne ho parlato anche  qui).

La signoria estense è, allora, una delle più raffinate d’Italia
La vita della corte scorre tra le occupazioni quotidiane  e gli  svaghi.
Nelle lunghe giornate di ozio si vince la noia, facendo conversazione, giocando a scacchi, ascoltando musica e, soprattutto, appassionandosi alla sorte degli eroi dei poemi cavallereschi.

Il poeta di corte, Ludovico Ariosto, ha appena pubblicato, nel 1516,  la prima edizione del suo "Orlando furioso”. È stato subito un successo.
Un best seller: duemila copie stampate e vendute, davvero parecchie per l'epoca.

Le vicende sono avvincenti: vi si narra di donne, cavalieri, amori, duelli e magie. La trama coinvolge, fa rimanere  col fiato sospeso ed è facile restarne catturati.
Dosso, di sicuro, l'"Orlando furioso" lo conosce bene: è un amico e un ammiratore del poeta.

E allora per svelare l’identità dell’affascinante incantatrice non ci resta che addentrarci nella selva di storie narrate nel poema.

All’ottavo canto si scopre, finalmente, chi sia la bella maga.
È Melissa, la fata buona che protegge Ruggiero e Bradamante e che profetizza la discendenza estense dalle nozze dei  due eroi.
È proprio lei  che usa il cerchio magico, il libro e il fuoco per liberare i nobili cavalieri trasformati in fiori, alberi e animali dagli incantesimi della perfida Alcina.

E tutto si spiega.
L’uccellino, la rosa e il cane, in primo piano, attendono,  con pazienza, di riprendere il loro aspetto umano; gli "omuncoli" dagli esotici gonnellini, appesi all’albero, rappresentano, forse, le fasi intermedie della metamorfosi.
Intanto i cavalieri già liberati riposano seduti sul prato, mentre, nello sfondo, si distingue  il castello incantato dove erano tenuti prigionieri.

Sortilegi a fin di bene, "scioglimenti" e liberazioni che ben si accordano con la dolcezza serena e pacata della donna.

Quella di Melissa, però, non è  l'unica magia del dipinto

Perché anche Dosso è un mago, capace di ogni incantesimo con colori e pennello.



In una radiografia del dipinto si vede che, nella prima redazione, accanto a Melissa, compariva  un cavaliere in armatura: Astolfo, il primo a essere  liberato, dopo essere stato mutato in albero da Alcina.

Dosso, il mago-pittore, dopo averlo creato, ha deciso di farlo sparire.
Gli è bastato un colpo (o forse più) di pennello, per cancellarlo e trasformarlo nel   bonario cagnone dallo sguardo umano. 
L'unica traccia rimasta dell'elegante cavaliere  è il pettorale vuoto della corazza, appoggiata all'albero.

Inserire la figura di Astolfo in primo piano  sarebbe stato più aderente al testo, ma  avrebbe reso il dipinto troppo affollato  e  avrebbe diminuito l'impatto  straordinario  di Melissa.

Dosso cede, dunque, alle esigenze della pittura: non è e non si sente un semplice illustratore.
Si basa su un testo letterario, ma, come succede quando si narra  una favola, non sta troppo attento all'esatttezza di ogni  singola  citazione. 
L'importante è che il racconto fili. Per questo inserisce elementi che non ci sono e ne cancella altri fondamentali.
Quello che conta  è  l’atmosfera e il fascino  della narrazione.

Con la stessa libertà si  lascia andare alla gioia e all’incanto del dipingere.
Indugia sui tessuti e accentua gli effetti baluginanti della seta e del broccato, poi, con  piccoli tocchi dorati,  illumina, non solo la cascata delle frange della veste e del turbante della maga, ma anche  i ciuffi d’erba e le foglie degli alberi dell’ampio paesaggio.
Nella figura  monumentale della donna strizza l’occhio alle Sibille di Michelangelo della Sistina, mentre nel paesaggio e nei personaggi sullo sfondo riecheggia il Concerto campestre di Giorgione e Tiziano

Come l'amico Ludovico Ariosto  dà libero spazio alla levità e al sorriso, divertendosi a rielaborare e a stravolgere i suoi modelli pittorici e letterari.
Gli piace trasmutare personaggi, dettagli e simboli. Ed è così che riesce a rendere al meglio l'incanto del poema.

Usa il pennello come una bacchetta magica che crea, trasforma e lascia cadere su tutto il suo pulviscolo dorato.
Con lui  la vera magia è quella della pittura.




venerdì 21 ottobre 2011

Un anno di blog







E un anno è già passato……..

No, non è l’inizio di una canzone nostalgica di Guccini.
È un anniversario: è giusto un anno che ho aperto questo blog.



L’avevo iniziato, scrivendo solo per me, come una specie di diario virtuale e, poi, il 20 ottobre dell’anno scorso, spinta da amici del blog e del cuore, ho deciso di renderlo pubblico.


Mi sono accorta, andando avanti, che scrivo sempre più di storia dell’arte. Mi piace raccontarla: è la mia materia, il mio lavoro.




Ho trovato in questo strumento - per me del tutto nuovo - una maniera di comunicare che mi appassiona.

E ora dire “un anno e sembra ieri”, mi pare retorico.
Dire “ringrazio chi mi legge e chi mi commenta”, mi sembra talmente ovvio da suonare superfluo.

Però a passare sotto silenzio un anniversario come questo non ce la faccio. 
E allora ?

Allora: “Buon compleanno !”






martedì 18 ottobre 2011

Ferrara, Casa Romei: il giardino delle Sibille







Casa Romei a Ferrara. Una grande sala con un camino. Lungo le pareti, dodici figure femminili, le Sibille, in piedi contro una spalliera di rose.
Potremmo dire,  parafrasando un  titolo famoso, che siamo davanti a una "scena per un matrimonio".
                           
                                        


Quando, a metà Quattrocento, Giovanni Romei decide di far affrescare la sala al pianterreno della sua bella casa ferrarese, è nel pieno della sua ascesa sociale.
Ha una cinquantina d’anni, è un ricco mercante e sta per realizzare il sogno della sua vita: entrare nella cerchia dell’aristocrazia.
Sta per sposare la giovane Polissena, figlia naturale di Meliaduse, il primo dei numerosi figli illegittimi di Nicolò III d’Este.
Essere illegittimi, all'epoca, non è un disonore (ne ho parlato qui) e, poi, per Giovanni imparentarsi con la famiglia dei Signori di Ferrara è essenziale.
Il matrimonio con Polissena è un punto d'arrivo: la futura sposa è nipote del duca Borso e suo padre- costretto, suo malgrado, alla carriera ecclesiastica- è un personaggio di spicco della corte.

Polissena, come molte giovani di casa Este, rappresenta una pedina importante nella "politica nuziale" della famiglia.
Poco spazio per gli struggimenti d'amore: i matrimoni, accortamente preparati, assicurano, fuori Ferrara, alleanze indispensabili, mentre, in città, garantiscono la fedeltà e il sostegno finanziario degli esponenti più ricchi dell'alta borghesia.
E il denaro di Giovanni Romei, considerato un vero e proprio mago della finanza, fa comodo, eccome.
Giovanni, vedovo da tempo, ha già stipulato il contratto di nozze e, anche se il matrimonio verrà celebrato più tardi, vuole predisporre la casa per accogliere la futura sposa. 
Ci tiene che la giovane si trovi bene in un ambiente raffinato e vivace. E che non abbia a soffrire di nostalgia.

Non sappiamo quale fosse la destinazione della sala, ma non è da escludere che servisse per quei ricevimenti di rappresentanza, necessari alle sue pubbliche relazioni.
Ha commissionato gli affreschi a uno dei numerosi artisti che gravitano in città, capace, sicuramente, di assicurare il compimento del lavoro, ma non famoso al punto da lasciare traccia di sé nei documenti dell’epoca.
Come soggetto ha scelto le Sibille.

È un tema ritornato in auge, da quando è stato usato, a Roma, per il Palazzo del cardinale Giordano Orsini e ripreso, a Ferrara, in palazzo Belriguardo, nell'anticamera dell’appartamento di Leonello.
Le Sibille rappresentano la trasposizione cristiana delle profetesse pagane.
Un soggetto non allegrissimo, in verità e apparentemente poco adatto a un matrimonio.
Qui, però, non sono raffigurate come delle vecchie austere e scostanti, ma come delle giovani damigelle che indossano  le vesti alla moda per l’aristocrazia del tempo.


La Sibilla Persica, per esempio, è abbigliata con la tipica veste quattrocentesca, la gamurra, ricoperta da una ricca sopraveste.
Porta un mantello bordato di pietre preziose e un velo che ne lascia intravedere i capelli biondi e arricciati.
I colori, purtroppo, sono scomparsi, ma da alcune tracce è possibile dedurre che prevalessero i toni del verde, del grigio e del giallo dorato.

In tutta la stanza si respira un'atmosfera di cortese e sofisticata agiatezza. 
La giovane sposa si sarebbe sentita attorniata da aggraziate fanciulle, simili a quelle che frequentava a corte.
E, soprattutto, si sarebbe rallegrata di ritrovare, nel chiuso della stanza, un vero e proprio giardino dipinto.
I giardini, i "verzieri", dove alberi da frutto e fiori ornamentali venivano coltivati insieme, erano l'orgoglio degli Este e adornavano le loro dimore in città e in campagna.
Probabilmente anche la casa di Giovanni Romei aveva un giardino simile a quelli estensi.
E chissà che non derivi proprio da lì, in una sorta di continuità tra esterno e interno, il motivo della spalliera di rose bianche, che corre lungo tutte le pareti e che fa da sfondo alle Sibille



Anche nei riquadri, al di sotto del soffitto, il tema del giardino continua con un motivo di rami carichi di frutta e di fiori, talmente precisi da far pensare che il pittore si sia basato sull'osservazione di dettagli reali o su uno di quegli erbari, o "Libri dei Semplici",  all'epoca assai diffusi.

Ecco raffigurato, con assoluta esattezza, un ramo di lazzeruolo, una specie di biancospino originario dell'Africa.




Le Sibille, fissate in eleganti movimenti, quasi di danza, portano dei cartigli svolazzanti con i loro vaticini che annunciano la nascita del Salvatore e che esaltano il ruolo della Madonna.
Sempre alla Madonna si riferisce la Natività nella parete sud.
Il giardino potrebbe allora, avere una valenza simbolica, e alludere all' hortus conclusus, l'orto recintato, simbolo della verginità di Maria.
All’illibatezza verginale rimandano, del resto, anche le candide rose della spalliera.

Nel soffitto le rappresentazioni di un Cupido bendato e della Vergine con l’unicorno si alternano allo stemma della famiglia e a un fiore stilizzato


Il Cupido allude all’amore coniugale, mentre l'unicorno era un simbolo riconosciuto di purezza, perché, secondo la leggenda, poteva essere addomesticato solo da una vergine.
Il motivo ricorrente della sala, religioso e profano insieme, è, dunque, quello dell’esaltazione della pudicizia.
Ma vi si può riconoscere anche un "messaggio matrimoniale"- e nemmeno tanto velato- sulle qualità che il maturo e ricco mercante si aspetta dalla sua sposa.
La moglie dovrà, con un comportamento immacolato, dare lustro alla famiglia.

Per questo lo stemma dei Romei, con un cane rampante e un cimiero, sembra dominare, come un monito, sulla cappa del camino.

Le Sibille, profetesse dell'incarnazione di Cristo, in un giardino reale e simbolico, celebrano le virtù femminili cristiane, e, allo stesso tempo, l'orgoglio mondano di Giovanni Romei.
La sua ascesa sociale, in effetti, fu accellerata dal matrimonio.
Dopo le nozze fu nominato ambasciatore presso il papa, fattore generale del duca Borso e conte di Bergantino.
Aveva ottenuto quel che voleva. 

Invece di Polissena e della vita che condusse nel chiuso delle sue stanze, sullo sfondo delle scene preparate dal marito, non sappiamo niente.
Nessun cenno rimane nei documenti.
Possiamo solo immaginare che abbia compreso il messaggio delle Sibille.
E sperare che, nella sua appartata vita quotidiana, i suoi giorni e i suoi pensieri siano stati allietati dai fiori del giardino dipinto e dalle sue silenziose e leggiadre abitatrici.



Le vicende della sala, l’iconografia delle Sibille e la storia del restauro sono descritte  in Le Sibille di Casa Romei, Longo Editore Ravenna 1998.
Casa Romei è attualmente un museo statale. Per informazioni e orari di visita il link è questo







martedì 11 ottobre 2011

Lorenzo Lotto: la "sciura "Lucina.





“L’iconografia, che consiste nel dischiudere i significati di un’immagine.. come i dossi di rallentamento sulla strada ci trattiene più a lungo davanti a un dipinto,......ci costringe a frenare e allora ... la bellezza del quadro, difficile da affrontare direttamente, comincia a farsi strada in noi. Come dice E.M.Forster: "Solo quello che vedi con la coda dell'occhio ti tocca nel profondo".(A. Bennet, Una visita guidata, Adelphi 2010)



Mi piacciono i dipinti che fanno immaginare una storia e il "Ritratto di donna" di Lorenzo Lotto, dell'Accademia Carrara di Bergamo, è uno di questi:



Sullo sfondo di una tenda in broccato rosso, siede una gentildonna dall'aria compiaciuta e soddisfatta.
La fisionomia è descritta impietosamente: il viso grassoccio, le labbra sottili, il naso lungo e, perfino, un accenno di doppio mento.
Non è bellissima, ma è ricca e ci tiene a farlo sapere.

A giudicare dallo sfarzo dell'abbigliamento sembra che abbia deciso di sfoggiare gli oggetti più lussuosi del suo guardaroba.
Per dimostrare che segue la moda indossa una vistosa "capigliara", un'acconciatura a metà tra parrucca e copricapo, invenzione recente della regina del look dell'epoca, la marchesa di Mantova, Isabella d'Este.
I capelli posticci sono intrecciati e decorati da una fitta serie di fiocchi d'oro, da un filo di perle e da un fiore.

Non basta: al collo ha una collana di perle e un monile a forma di cornetto, mentre la camicia bianca è ornata da un ricamo di nastri dorati e motivi a conchiglia. La veste scura dalle ampie maniche sembra di un morbido velluto nero; una pelliccia con una testina di donnola, decorata da una catena dorata, le scende dalla spalla sinistra.

Siamo negli anni '20 del Cinquecento e Lorenzo Lotto (ne ho parlato qui) inquieto e insofferente, schiacciato, nella sua nativa Venezia, dalla predominio della bottega di Tiziano, si è rifugiato in provincia, a Bergamo.
È un artista che ama gli enigmi, i rebus, i simboli e non ricorrerebbe mai a un'iscrizione per identificare il personaggio di un suo ritratto.
Preferisce disseminare il dipinto di immagini criptiche e coinvolgere lo spettatore in un gioco di pazienza per arrivare a svelarne l'identità.

Non ci resta che assecondarlo per scoprire chi sia questa agghindata e infiocchettata gentildonna

Il primo indizio è talmente evidente che, come nel racconto della lettera nascosta di E.A.Poe, ha rischiato di rimanere invisibile, fino al 1913, quando il rebus è stato risolto.

Perché di un rebus vero e proprio si tratta. È celato in quello  squarcio di cielo notturno che compare in alto e nella falce di luna, dove sono iscritte le lettere C e I.
La soluzione non è difficile per chi sia abituato alle sottigliezze dei giochi di parole. È lu-CI-na.
E Lucina, appunto, è il nome della donna.



Per capire il cognome è stato necessario munirsi di una lente d'ingrandimento e di una gran pazienza per ritrovare, nell'anello all'indice della mano sinistra, lo stemma della famiglia Brembati di Bergamo.

Lucina Brembati, dunque.
In effetti, questo nome compare in vari documenti dell'epoca, che ne attestano il matrimonio, nel 1508, con Leonino Brembati, esponente di un altro ramo della famiglia e anche lui ritratto da Lotto.

All'epoca del dipinto la donna ha una trentina d'anni- per dire la verità portati male- e il benessere che ostenta è giustificato dall'appartenenza a una delle famiglie più solide e importanti della città.

Ma c'è solo questo da scoprire nel quadro? Chissà!

Un'ipotesi, basata sull' assonanza tra il nome della donna, e quello di Giunone Lucina, protettrice, secondo la mitologia, delle donne incinte, ha visto nel dipinto un' allusione a una gravidanza, cui rimanderebbe anche il gesto della mano posata sul ventre.
La donnola sarebbe, allora, un simbolo dei pericoli di un parto tardivo, almeno secondo gli standard del tempo, e il gioiello a forma di cornetto, che porta al collo un amuleto per proteggersi dai rischi.
L'ipotesi è suggestiva, ma, in realtà in questi anni non è documentata alcuna gravidanza di Lucina.
E, soprattutto il pendente, ornato da una perla, non è affatto un amuleto.

Si tratta di un oggetto assai più prosaico: la sua rilevanza, nel dipinto, non nasconde alcun simbolo, ma conferma il gusto pacchiano di Lucina.

È uno stuzzicadenti d'oro.

L'accessorio, indispensabile all'igiene dentale, era abbastanza diffuso come monile-gioiello, fino a che, nel 1559, Monsignor Giovanni della Casa, l'elegante estensore del "Galateo", non lo bandì, come segno inequivocabile di volgarità.


Forse non c’è nessun senso nascosto nemmeno dietro alla donnola, che potrebbe essere semplicemente una delle pellicce più alla moda nel mondo delle ricche signore di provincia: una simile è indossata dall'"Antea" di Parmigianino.

Significati veri e presunti, interpretazioni che si intrecciano, come Lotto, probabilmente, avrebbe voluto.

Nel ritratto, però, non c'è solo un'iconografia complessa e qualche enigma da risolvere, c'è una qualità e una raffinatezza di esecuzione che, presi nelle trappole dell’interpretazione, scopriamo solo dopo, poco a poco.

Come nella citazione di Bennet, la bellezza del dipinto ci colpisce quasi a tradimento, rendendoci  consapevoli che siamo di fronte a un capolavoro.

Lotto, catturandoci con il suo misto di introspezione psicologica, originalità e capacità di conciliare mondo reale e mondo simbolico, ha saputo consegnare una provinciale agiata e opulenta, una specie di  "sciura" cinquecentesca, di cui nessuno si sarebbe ricordato, all'immortalità della pittura.


 







sabato 1 ottobre 2011

J.R. Boronali, "Tramonto sull'Adriatico" ovvero colpi di coda





Al Salon des Indépendants del 1910, nella sala 22, alla fine del percorso, è esposto un dipinto: "Coucher de soleil sur l'Adriatique, Tramonto sull'Adriatico". 
Il  titolo fa il verso alle "Impressioni al levar del sole" di Monet che, ventotto anni prima, hanno dato il nome all'impressionismo.



Un tramonto fiammeggiante con nubi rosse e arancione su un mare azzurro, realizzato con rapidi tocchi. Colori vivaci, in cui sembra dissolversi la linea dell'orizzonte.

Le reazioni sono state contrastanti.
C'è chi ha apprezzato e vi ha visto l'influenza di van Gogh o di certi paesaggi di Emil Nolde. E c'è chi è rimasto sconcertato e perplesso per una tela così astratta. Ma tutti si sono chiesti chi sia lo sconosciuto pittore che si è firmato J.R.Boronali e che è capace di simili sicuri colpi di pennello.
Il dipinto ha destato, comunque, una gran curiosità.

Eppure gli appassionati d'arte contemporanea di sorprese, negli ultimi cinque anni, ne hanno avute parecchie: dall'esposizione dei dipinti del gruppo dei fauves (le belve) capitanati da Henri Matisse a quella delle Demoiselles d'Avignon di Picasso, che hanno definitivamente scardinato il modo tradizionale di far pittura.

Ma, nella foga dei colori di Boronali, c'è qualcosa che colpisce e i commenti sono stati molti.
Si dice che il poeta Guillaume Apollinaire, uno che gli artisti li frequenta spesso, di fronte al quadro, abbia esclamato: "C'est un aimable plaisanterie, è un piacevole scherzo".
Traccia preziosa, come si vedrà.

A ogni buon conto, per saperne di più, conviene seguirlo a Montmartre, in un locale, dove va spesso a recitare i suoi poemi e dove gli artisti si ritrovano tutti, perché lì fanno credito.
"Le lapin agile"si chiama.

È uno strano quartiere Montmartre. In basso c'è vita, negozi, cabarets e locali notturni di dubbia fama. Sulla collina, invece, sembra un villaggio di campagna: case basse con giardinetti, nessun palazzo, poca gente.
"Le lapin agile", da quelle parti, lo conoscono bene.

Il proprietario, Fréderic Gerard detto père Frédé, è un'istituzione.
Gira vendendo frutta e verdura di stagione con il suo asinello, Lolo, a cui è legatissimo. Gli piace scherzare e cantare canzoni sentimentali ed è noto per offrire pasti gratis, in cambio di una poesia o di un dipinto.

Basta questo per attirare i molti artisti che vivono nel quartiere.






Anche il nome bizzarro del locale fa la sua parte. È un gioco di parole che nasce dall'insegna di un coniglio (un lapin) dipinta da un caricaturista all'epoca molto famoso, André Gill. Si è fatto presto, allora, a creare il nome di "Lapin à Gill" (il coniglio di Gill) e a trasformarlo, poi, in "Lapin agile".
Ormai quel nome è conosciuto da tutti.

Il locale si anima, soprattutto sul tardi, quando arrivano gli attori usciti dai teatri, i giornalisti del turno di notte o i pittori che hano finito di lavorare nei loro ateliers.

L'interno è scuro, fumoso, i tavoli affollati.






Lì si ritrova un gruppo di giornalisti e scrittori con a capo un giovane elegante e, di certo, più ricco  degli altri frequentatori.
Roland Dorgelès si chiama, ha ventiquattro anni e ha appena finito l'accademia di Belle Arti; fa il giornalista, ma ha l'ambizione di diventare scrittore.

Nel suo gruppo sono tutti "tradizionalisti". Non amano le avanguardie, né Matisse, né, soprattutto, Picasso e i suoi amici; "la bande à Picasso", li definiscono.
Il loro è un chiodo fisso. Dicono che sono arroganti e incapaci di dipingere, che fanno quadri dove non si capisce nulla e che chiunque potrebbe fare. E qualcuno si spinge ad affermare  che sono la rovina dell'arte.

E lì Boronali lo conoscono.
In effetti, sul giornale satirico "Il fantasio" è uscito, il primo d'aprile, un articolo a firma Joachim Raphael Borolani di Genova, col manifesto di un movimento artistico, di cui  si dichiara fondatore, l'Eccessivismo.
"Devastiamo i musei assurdi, prendiamo a calci le abitudini infami. Viva lo scarlatto, la porpora e le gemme corrusche ...":così comincia.
Una parodia evidente del "Manifesto del futurismo" di Tommaso Marinetti, apparso l'anno prima sul "Figaro".

A questo punto gli elementi per capire li abbiamo  davvero tutti.
E scopriamo che tutto è uno scherzo  e che la chiave è nella firma.

Il nome del pittore, Borolani, è un anagramma.
Sta per Aliboron, un termine, comunemente usato, in francese, per indicare l'asino, dal nome del protagonista di una celebre favola di La Fontaine.

La cosa incredibile (ma vera) è  che anche la tela è un gioco.
È stato Roland Dorgelès che, insieme ai suoi amici tradizionalisti, l'ha preparata e l'ha fatta completare niente di meno che  da Lolo, l'asinello di Père Frédré.
Sì, l'asino in persona (si fa per dire) l'ha dipinta, con un pennello attaccato alla coda, dopo una dieta di carote e foglie di tabacco per aiutare l'ispirazione.
La firma, dunque, è ineccepibile: si riferisce, davvero, all'autore.


È lo stesso Dorgelès che ha scritto l'articolo sul "Fantasio" e che svelerà la burla al giornale "Le Matin", con tanto di fotografia di Lolo che dipinge.

Farà sensazione, ovviamente, ed è quello che vuole.

L'argomento verrà usato per anni e dappertutto.



"La coda dell'asino" si intitolerà la prima mostra, a Mosca, nel 1912, di due pittori, Mickhail Larinov e Natasha Goncharova, che  oppongono alle avanguardie francesi il loro primitivismo" sano", derivato dall'arte popolare russa.
Lo scherzo verrà rievocato, strumentalmente, dai detrattori nazisti dell'"arte degenerata" o dai fautori sovietici del realismo socialista.

Roland Dorgelès diventerà un eroe nella prima guerra mondiale e uno scrittore premiato ed eletto nell'Accademia Goncourt.
Lolo continuerà a fare, pazientemente, il suo mestiere di asino: non dipingerà più.

E il dipinto? Finirà per essere acquistato e nemmeno male: 400 franchi dell'epoca, circa 1.200 euro. 
Ora, debitamente incorniciato, è conservato in un museo di provincia, l'"Espace Culturel Paul Bédu" a Milly-la- Forêt.
Piccolo, ma pur sempre un museo.

Morale: mai dire" quello è il dipinto di un asino".
Potrebbe essere proprio così e tutt'altro che da disprezzare.