domenica 30 gennaio 2011

Piero di Cosimo, La morte di Procri




In un film di qualche anno fa, "Amadeus" di Milos Forman, un musicista, Antonio Salieri, si chiede come mai lui, così colto e così educato, non riesca a comporre musiche sublimi, come quel giovanotto fatuo, frivolo e un po' volgare che era Mozart. 
Chissà che, nella Firenze tra fine Quattrocento e inizi Cinquecento, non abbiano avuto pensieri simili certi pittori, tutti perbene, devoti e ammodo su quell'"irregolare" che era Piero di Cosimo. E chissà cosa avranno pensato di un dipinto come questo: la "Morte di Procri" ora conservato alla National Gallery di Londra:



Un dipinto raffinatissimo che suscita una sensazione di incanto, di malinconia. 
L'episodio è quello finale di un mito raccontato da scrittori e da poeti (primo fra tutti Ovidio nelle Metamorfosi): Cefalo, durante una battuta di caccia, uccide, per errore, la moglie Procri con un giavellotto. E fugge disperato.
Una morte violenta che poteva essere raffigurato in maniera esplicita, palese.
Qui, invece, tutto è già successo: l'orrore della morte o la fuga di Cefalo. 
Non c'è alcuna agitazione, alcuno scompiglio.
Tutto sembra fermo, immoto.
La scena è ridotta al minimo: Cefalo non è nemmeno rappresentato.
Dei protagonisti appare soltanto Procri, con il corpo disteso su un prato di erba e di fiori. 
Poche gocce di sangue sul collo sembrano suggerire, più che rivelare la violenza del colpo mortale.
Un fauno la veglia desolato; un grosso cane- forse Lalape, donato a Procri della dea Diana- afflitto e partecipe, pare riassumere in sé quel senso di tristezza inconsolabile che avvolge tutta la scena. 
Nessun altro personaggio. 
Solo un paesaggio illuminato dalla luce del tramonto e, sullo sfondo, lungo le rive di un fiume, tre cani, apparentemente indifferenti all'evento che si svolge in primo piano. 
Una natura impassibile fa da scenario alla mestizia dei due protagonisti: il fauno e il cane, accomunati dallo stesso silenzio attonito e senza conforto.

Il formato rettangolare fa pensare che, all'origine, il dipinto costituisse la parte anteriore di uno di quei cassoni da corredo, che si regalavano in occasione di matrimoni.
È una di quelle commissioni che non richiedevano una grossa bottega e che erano frequentemente affidate a Piero di Cosimo, un pittore bizzarro e nevrotico
Oggi lo definiremmo un inquieto, probabilmente anche un border-line, mentre, una cinquantina d'anni dopo la morte, Giorgio Vasari nelle sue biografie d'artisti, ne fa il ritratto, forse esagerato, di un uomo di ingegno sottile ma "per la bestialità sua" ritenuto addirittura un pazzo, un folle.
Un po' d'eccentricità era tollerata, se non perfino apprezzata, ma Piero di Cosimo....!
Trascurato, anzi decisamente sporco, sempre arrabbiato, sempre a brontolare con tutti. E poi lo si vedeva girare per la città, parlando da solo, ripetendo sempre le stesse cose e con una borsa piena di uova sode, che mangiava, poco a poco, quando gli veniva fame.

Eppure quest'artista solitario riesce a essere aggiornato sulle ultime tendenze della pittura (da Leonardo ai fiamminghi) e a dipingere opere raffinatissime, in cui si mescolano bizzarria e ricercatezze.
Questo pittore, appartato e paranoico, si dimostra capace di creare, con la "Morte di Procri", un dipinto di grandissima eleganza, in cui il mito classico e, insieme, l'influenza della cultura antica, che, nella Firenze del primo Rinascimento, era vissuta come un esempio di virtù, di regole razionali e di valori, diventa tutt'altro. 
Diventa evocazione, sogno, poesia.

Che mistero Piero di Cosimo! Che mistero il genio!





giovedì 27 gennaio 2011

Pane e olio



Mi hanno detto che certi  medici nutrizionisti chiedono, per prima cosa, ai loro pazienti a quale alimento non potrebbero rinunciare.
Riuscire a farne a meno per un mese è la prova di essere seriamente intenzionati a cambiare regime alimentare.

Mi sono chiesta che cosa per me sia irrinunciabile.
La cioccolata, le meravigliose pralines di Bruxelles? Probabilmente no. 
Lo zucchero? Dipende. 
La pasta? Forse potrei sopravvivere.

L’olio? Ecco: l’olio. 
Dell’olio, davvero, non saprei fare a meno.
Sarà perché sono nata in Toscana, sarà perché sono cresciuta in campagna, sarà per la mia famiglia contadina: ma l’olio, no.

Non voglio scomodare Proust e la madeleine, ma è vero che ci sono dei sapori che ci rimandano direttamente alle nostre memorie e al nostro passato. 
Per me sono pane, sale e olio. 
C’è un bel racconto nell’”Oro di Napoli”, in cui Giuseppe Marotta ne rievoca il sapore come l’odore dell’infanzia, il segno dell’appartenenza. Lo condivido appieno.
E mi vengono alla mente certe giornate appena tiepide di novembre, in cui si raccolgono le olive, l’odore aspro e intenso del frantoio, un colore verdissimo, iridescente e un sapore, amaro, pungente: l’olio novello. Irrinunciabile.



Chi mi conosce sa che non so cucinare. 
A Bruxelles vivo del buon cuore e dell’ottima cucina di mio marito. 
Quando sono da sola, in Italia, a Bologna, mi nutro di scatolette o mono-porzioni  surgelate da riscaldare nel forno a microonde, anche se leggo avidamente -con un’ammirazione direttamente proporzionale alla mia incapacità– i gustosi blog di cucina delle mie amiche.

Ma una ricetta per una volta –e sarà l’unica- la vorrei dare anch’io. 
È quella in cui l’olio dà il massimo di sé, una ricetta da amatori, da appassionati.
Non inganni l’apparente semplicità. 
Come tutti i piatti fondamentali ha provocato diatribe insanabili tra intenditori e scuole di pensiero diverse.
Si è discusso sulla quantità e il tipo d’olio, sullo spessore del pane, sullla presenza o meno del pomodoro e perfino sull’eventuale aggiunta del rinforzo saporito del pepe.

In Toscana è la  fettunta.

Gli ingredienti per due persone sono: quattro fette (almeno due per ciascuno,) di pane toscano (senza sale) “raffermo” ( quello del giorno prima) e tagliato sottile, uno spicchio di aglio ( meglio se fresco), olio nuovo extravergine di oliva preferibilmente toscano (inutile dirlo) e poi sale e pepe .
Prima bisogna fare abbrustolire il pane sulla griglia e poi strofinarci lo spicchio di aglio, quindi disporre le fette su un piatto grande o su un vassoio e aggiungere nell'ordine il sale, il pepe e l’olio, in abbondanza

Da servire caldo e assolutamente senza pomodoro o altre discutibili aggiunte.






sabato 22 gennaio 2011

I cavalli di Franz Marc.



I dipinti di Marc sono, da tempo, tra i miei preferiti. 
L’incontro con la sua pittura avvenne durante una lezione di disegno alle scuole medie. 
Fu una folgorazione. 

I suoi colori e la sua energia mi incantarono e mi incantano.
Li ho ricercati nelle gallerie, nei musei, perfino nei boschi della Baviera, a Kochel am See, dove, vicino a un lago, la sua casa di montagna è stata trasformata nel suo museo.

Franz Marc amava dipingere  animali, soprattutto cavalli, dai colori strani e inconsueti. 
Un suo quadro fu il manifesto del movimento artistico del Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro), alla cui creazione collaborò, nel 1911, a Monaco, al fianco di Kandinsky, Jawlensky, Macke e Paul Klee.

Come i pittori dell’espressionismo tedesco, Franz Marc privilegia la comunicazione dei suoi sentimenti e delle sue sensazioni, rispetto alla rappresentazione oggettiva della realtà.

I cavalli, gli animali, non hanno oggettivamente i colori che Marc vede in loro.
Ma quello che conta è la sua percezione, il suo modo di guardarli e di considerarli. 
Non gli interessa applicare le leggi della prospettiva, né rappresentare nel quadro un' illusoria profondità spaziale.

Cavalli rossi  blu, 1913

Le linee e soprattutto i colori vivi, violenti e intensi sono la sua maniera di esprimere l’energia, la vitalità, ma anche la violenza del mondo che lo circonda.
Le mucche gialle, i cavalli blu, i cerbiatti rossi  arrivano direttamente ai nostri occhi, con impeto, con entusiasmo e senza filtri.
Hanno tutta  la forza, la potenza e il vigore della vita.
Sono dipinti con la passione di chi ama la vita.

La cosiddetta battaglia di Verdun- in realtà una lunga serie di offensive e scontri tra febbraio e dicembre 1916- rappresentò una delle pagine più sanguinose di quella carneficina che fu la prima guerra mondiale.
In dieci mesi morirono 259.000 soldati.
259.000 giovani con le loro speranze, i loro sogni, la loro fantasia e la loro voglia di vivere: studenti, professori, operai, professionisti, disoccupati, artisti.

Nel pressi di Verdun mori anche Franz Marc. 
Aveva 36 anni.





Un link al Museo di Franz Marc è quihttp://www.franz-marc-museum.de/


giovedì 20 gennaio 2011

Viva Verdi !




A volte mi chiedo se la mia non sia l’ultima generazione ad amare la musica di Verdi in modo istintivo, viscerale, indipendente da ogni conoscenza musicale.

G.Boldini,Ritratto di Giuseppe Verdi
Se guardo alla mia passione per le opere di Verdi, mi accorgo che non è nata dalle mie scarse cognizioni di musica, ma da un mosaico di sensazioni e di ricordi che fanno parte della mia storia familiare.
"Aida" è legata alla famiglia dei miei nonni dove le prozie si chiamavano Aida e Anneris (alla toscana) come le eroine verdiane. Il nome di mio padre, Alvaro, era quello del protagonista della "Forza del destino".
"Nabucco" era l’opera che mio zio Armando si ostinava a farci ascoltare nei pomeriggi sonnolenti di Pasqua o di Natale, malgrado noi cugini tentassimo di nasconderci, con silenziosa sveltezza, non appena andava a prendere i dischi dal mobile del salotto.
La "Traviata" era la preferita di mia mamma che, tra sfogo e ironia, usava canticchiare: "Sempre libera degg’io….", quando stirava pile inesauribili di panni, o "Croce e delizia..", mentre preparava i pranzi laboriosi della domenica.

Nessuno dei miei parenti conosceva la musica, ma tutti conoscevano Verdi. L’amore per le sue opere - un po’ come quello per una squadra di calcio- univa nella mia famiglia le persone più disparate.
Da adolescente, la musica di Verdi è stata una  riscoperta. 
Di sicuro non era quella di cui parlavo o che condividevo nelle serate tra amici, anzi, un po' me ne vergognavo. 
Preferivo sentire i dischi da sola oppure andare a teatro  a Firenze con  qualche  comitiva di sconosciuti melomani. 

Ascoltare Verdi, però, mi piaceva, e tanto: riconoscere le melodie, ritrovare testi  dimenticati, esprimere sentimenti forti, amori, odi, vendette, quelli che nella vita di tutti i giorni non osavo nemmeno dire a parole.
E soprattutto sciogliere, nella commozione del canto a voce spiegata, quei nodi di paure, di complessi, di timidezze feroci, che- a volte- mi offuscavano il cuore.
Poco mi importava delle trame improponibili o dei libretti pieni di vocaboli desueti. 
Poco mi interessava delle voci dei cantanti o delle direzioni d’orchestra.
Quello sarebbe arrivato dopo, molto dopo.

Dapprima c'è stata solo la sensazione liberatoria dell'immedesimarsi, senza remore, nell'amore  della Leonora  nel Trovatore, nella fragilità di Violetta della Traviata, nel dolore del pianto di Rigoletto o nel tradimento di Renato del Ballo in maschera….
E tutto immerso nella musica intensa, languida, fragorosa, potente, dolcissima...la musica di Verdi.
Non sono cambiata. 
Quando sono sola in casa e ho voglia di lasciar libero sfogo alle emozioni so cosa fare: metto  un CD di Verdi e mi abbandono– io che sono stonata e quasi senza voce- alla felicità pura del canto.




Renata Tebaldi, Trovatore. Tacea la notte placida ..:




venerdì 14 gennaio 2011

La Calliope di Cosmè Tura.




"E di Cosmè Tura quando parli?"
Mi hanno chiesto  gli amici che sanno della mia passione per questo pittore bizzarro, anomalo e difficile, soprattutto per una toscana come me, più avvezza alla chiarezza razionale del Rinascimento fiorentino che alle bizzarrie stilistiche della pittura ferrarese.
Ma la vita-  si sa- ci cambia. 
E per fortuna!
Quando sono arrivata a Ferrara, la prima scoperta è stata la città- bellissima- subito dopo la pittura di Cosimo (Cosmè alla ferrarese) Tura (1433 ca.-1495).
Per amarlo, forse, non è necessario, ma per capirlo bisogna ritornare in quel mondo straordinario e magnifico che fu la corte degli Este.


C.Tura, Calliope, Londra National Gallery


Sullo sfondo di un cielo azzurro e di un paesaggio lontano una donna elegantissima, con una veste nera, maniche in broccato e un manto rosso-violaceo foderato in  verde, i capelli sciolti e un rametto di ciliegio in mano, è seduta su un sontuoso trono marmoreo, ornato in alto da un festone di cristalli di rocca e di coralli. 
Ai lati del trono delfini dorati dai denti aguzzi e dagli occhi di rubino, formano, con le pinne attorcigliate, complicate decorazioni.

Chi è? Cosa rappresenta? 
Difficile a dirsi. 
È probabilmente una delle nove Muse (forse Calliope, la musa della poesia epica) dipinte per un luogo mitico del Rinascimento: lo studiolo di Leonello d'Este nel palazzo di Belfiore a Ferrara, un luogo prezioso, destinato a dimostrare ai cortigiani e ai visitatori la cultura raffinata del principe. 
Per decorarlo l'umanista Guarino Veronese, precettore di Leonello, aveva riscoperto nei testi classici un soggetto fino ad allora mai trattato, quello delle Muse.
Il palazzo ora è scomparso e le Muse disperse in vari musei europei.

Cosmè Tura fu pittore della corte estense: a partire dalla metà del Quattrocento, pagato con uno stipendio modesto ma sicuro, eseguì pitture, decorazioni per mobili, stendardi, disegni per arazzi, gioielli. 
Gli Este erano– e si sentivano- una delle famiglia più aristocratiche d’Italia, la loro corte una delle più antiche. 
Le passioni dominanti erano l'astrologia, la moda, la musica; credevano negli influssi degli astri e delle pietre preziose. 
L'arte elaborata per loro era un’arte elegantissima, difficile, ricca di motivi che non potevano e non dovevano essere compresi se non dai felici pochi, dagli happy few, che potevano avere accesso alle stanze segrete dei loro palazzi, delle" delizie" che costruivano in città e nel territorio.

La Musa di Cosmè Tura è così: astratta e preziosa. 
Come ha scritto un grande storico dell'arte, Roberto Longhi, sembra avere "una natura stalagmitica", appartenere a "un'umanità  di smalto e di avorio e con giunture di cristalli".
Con i suoi simboli ancora da decifrare (i delfini dorati, i rubini, i coralli), rimanda alla raffinatezza e alla complessità del mondo di una corte.
Sa evocare e suggerire, ma non si svela.
Il suo significato rimane oscuro, in ombra.

Per me questa figura misteriosa e ammaliante continua ad avere il fascino di una maga, di un'incantatrice distante ed enigmatica, capace di trasformare in metalli e pietre preziose la fluida materia degli esseri viventi.






Forse questa può essere la musica che l'accompagna. Michael Nyman, Time Lapse :




domenica 9 gennaio 2011

I grandi enigmi




Ci sono giorni in cui la realtà sembra frantumarsi in una serie infinita di sensazioni. 
Ci sono giorni in cui non siamo più capaci di dominare la mutevolezza del mondo sensibile, in cui ci sembra di non trovare un unico principio ordinatore, qualcosa che dia senso a tutto. 
Che fare allora ? 
C'è chi rilegge i filosofi dell'empirismo: i saggi di John Locke o il "Trattato" di David Hume, c'è chi ritorna alle teorie di Cartesio.

Io preferisco affidarmi alla "Settimana Enigmistica".

Sono anni ormai che la Settimana Enigmistica mi rassicura e che mi conferma che esiste un punto  immutabile nell'infinita varietà e nel costante fluire del cosmo.


Come gli adepti di una setta, che vada da un un raffinato semiologo come Umberto Eco, a una storica dell'arte dismessa, a una distratta casalinga, i lettori si sono ormai assuefatti alla veste grafica invariabile, ai colori del titolo che si susseguono secondo uno schema fisso: blu, verde e rosso. 
Ne ripercorrono con orgoglio la storia, sicuri che nessun periodico vanti come fondatore, nel 1932, un Cavaliere del Lavoro, Gr.Uff. Dott.Ing. come il conte di Sant'Andrea Giorgio Sisini. 

Sono certi che nessun altro settimanale abbia mai subito interruzioni nelle sue uscite, se non quella inevitabile, dati gli eventi bellici e politici, del 14 luglio 1943.
Insomma, la Settimana Enigmistica, così come la squadra di calcio preferita, è una fede, non si discute e non si cambia.

Come potremmo fare senza il poliedrico signor Brando, protagonista di fatti apparentemente inspiegabili, l'astuto Guerrin la Volpe o gli intelligentissimi Gianni e Susi, capaci di risolvere ogni problema matematico?

Cosa sarebbe di noi, privati delle parole crociate senza schema, degli incroci obbligati, dei cruciverba dei Bartezzaghi, del Bersaglio o degli enigmi destinati ai "solutori più che abili" ?
Come sarebbe carente la nostra cultura generale, senza rubriche come l'Edipeo enciclopedico, "Forse non tutti sanno che..", oppure le stuzzicanti curiosità dell'"Incredibile ma vero".

Settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, i giochi si susseguono con la stessa sequenza, i rebus propongono soluzioni invariate, la "Pagina della Sfinge" riesce a sciogliere ogni possibile ambiguità.

Altri cerchino pure consolazione e rifugio nella filosofia o nell'esoterismo, io le mie risposte le trovo nella Settimana Enigmistica.





Baustelle : L'estate enigmistica:
http://www.youtube.com/watch?v=bdolcKZRDLg





mercoledì 5 gennaio 2011

Le stelle di Ravenna




Esistono momenti magici, sospesi, quando d’improvviso sembra di entrare in un tempo e in uno spazio diverso.
È una questione di istanti; basta un cambiamento, anche minimo e tutto rientra bruscamente nel tempo reale, nel tempo di una glaciale mattinata d’inverno.

A fine dicembre a Ravenna era freddissimo con quel sole tipico delle giornate gelide, un sole che emana una luce fredda, nitida, radente.
Quando siamo entrati nel piccolo mausoleo di Galla Placidia eravamo soli.
Fuori un grande silenzio, il chiarore bianco del ghiaccio. 
Dentro, la penombra delle finestre di alabastro, il rumore brusco dei nostri passi e improvvisamente dalla porta semiaperta una lama di luce che ha colpito i mosaici del soffitto.



Le tessere blu indaco dello sfondo e oro delle stelle si sono illuminate, di colpo.
Ed è apparso un cielo, un cielo metafisico, in cui un firmamento di più di cinquecento stelle d’oro a otto punte sembra ruotare intorno a una aurea croce latina. 
Ai lati quattro esseri alati, i simboli degli evangelisti, sembrano sorreggere la volta celeste.
Nel piccolo corridoio, invece,  una decorazione a motivi astratti su fondo blu indaco: anche qui una notte illuminata di stelle.



C’è stato un attimo, un istante di silenzio assoluto: la sensazione di chi sta assistendo a un prodigio, la meraviglia, lo stupore di chi vede qualcosa per la prima volta.
Pensare, invece, che quei mosaici hanno attraversato quasi milleseicento anni di avvenimenti, di sguardi, di pensieri per arrivare fino a noi con la stessa capacità di emozionare e di commuovere. 
È bello anche ripercorrerne la storia.
Sapere che fu Galla Placidia, figlia, sorella e madre di imperatori a commissionare il mausoleo tra il 425 e il 450, costretta a trasferirsi da Costantinopoli a Ravenna, capitale dell’impero romano d’occidente, in un territorio violentato dalle scorrerie dei barbari, dalle lotte interne tra gli ultimi imperatori con una popolazione ridotta allo stremo che scappa, che cerca rifugio. 

Miseria, dolore disperazione dappertutto. 
Che effetto avranno fatto allora a chi entrava quei mosaici, quelle migliaia di minuscole pietre lucenti ? 
Il tema iconografico di tutto il mausoleo è quello della vittoria della vita ultraterrena sulla morte.
La luce che vince il buio.

Un richiamo al trascendente, una fuga da una realtà insostenibile. 
Chissà quanti vi avranno trovato consolazione.




Per la "piccola storia:" si dice che Cole Porter, in viaggi di nozze a Ravenna, suggestionato da questi mosaici, vi abbia composto Night and Day:
http://www.youtube.com/watch?v=_FL4i9cl640





sabato 1 gennaio 2011

Take five: il jazz





Il jazz è un gusto adulto.

Quando ero adolescente lo trovavo difficile, noioso, destinato a pochi e vecchi intenditori. 
Ascoltavo, ma solo per sbaglio, trasmissioni alla radio in orari improponibili e guardavo, senza troppa attenzione, vecchi filmati in bianco e nero che passavano ogni tanto in TV.
Quanto mi annoiava, il jazz !
Poi il colpo di fulmine, imprevisto e imprevedibile. 
A una di quelle feste che allora usavano con il giradischi e gli LP già predisposti per cadere sul piatto e fare da colonna sonora ai nostri desideri di incontri e di amori ecco "Take Five".
La scoperta.
"Ma cos'è questa musica ?"
"Boh , non so,... è jazz.."
Ma allora questo era il jazz !


Questa musica che ti entrava dentro, diversa da quella che ero abituata ad ascoltare, questo ritmo che non aveva bisogno di parole, caldo, coinvolgente, che  faceva sognare posti diversi, città lontane, che mi  faceva sentire più matura, adulta.
È da allora che lo ascolto e che mi piace.
A poco a poco è entrato nella mia vita di tutti i giorni.
Caso, destino ? 
Il jazz è la grande passione di mio marito, è la musica che  risuona quotidianamente in casa mia, come sottofondo, quella che mi accompagna nei momenti di allegria e in quelli di solitudine.
Se penso a un pezzo, con cui iniziare l'anno nuovo- è inevitabile-  penso a questo, penso al jazz....