martedì 28 dicembre 2010

Rubens: la felicità di dipingere




Non sapevo quale immagine scegliere, dopo la freddezza altera della Madonna di Fouquet di cui ho parlato QUI e allora ho deciso per l'opposto: un'immagine immediata, calda.
Ho scelto uno dei più grandi pittori barocchi.
Ho scelto Pieter Paul Rubens (1577-1640).

Premetto: Rubens non è tra i miei artisti preferiti.
Ogni volta che lo vedo, nelle sale dei musei, sono schiacciata dall'opulenza delle sue tele enormi, dall'eccesso di colori, dalla sovrabbondanza dei personaggi, della ricchezza dei dettagli, dai suoi floridi nudi femminili, dalle carni tremule e bianco-rosate.
Troppo fragoroso, troppo fastoso, troppo carico. 
Insomma: troppo!

Ma c'è un Rubens che mi piace. 
È quello dei ritratti, dove l'introspezione psicologica riesce a dominare ogni eccesso. 
E, soprattutto, mi piace la libertà, la pienezza e la felicità di dipingere dei disegni, dei bozzetti o degli schizzi.



Visitando il museo di Bruxelles con un'amica, abbiamo riscoperto questo studio. 
Un'immagine di forza, di energia: quattro diversi atteggiamenti e quattro diverse espressioni di un giovane nero.
Rubens lo ha disegnato, rispettandone il carattere, la serietà, la dignità, ma anche la gioia di vivere. 
E tutto questo ce lo ha saputo trasmettere con immediatezza, senza filtri.

Qui non pare si sia servito di  un modello, tanto meno in posa.
Sembrerebbe, piuttosto, uno schizzo dal vero.
Forse è un giovane marinaio intravisto nel porto di Anversa, dove non era difficile scorgere fisionomie esotiche tra gli equipaggi delle grandi navi, provenienti da luoghi lontani e cariche di merci preziose.

È probabile che Rubens lo abbia tracciato dal vero e lo abbia rifinito nel suo studio, dipingendolo a olio per riutilizzarlo per un'altra composizione, un'Adorazione dei Magi, per esempio, dove uno dei tre Re è spesso un moro.
È possibile.
Quello che colpisce è, comunque, la freschezza, la velocità e la facilità di esecuzione.

Siamo nella prima metà del'600 e Rubens è un pittore affermato che vive nella sua Anversa natale, come un signore, colto e ben vestito.
Ha una bella casa, fornita di ogni comodità, dove lavora nel suo studio, colleziona statue antiche o legge testi classici.
Un uomo che si sa godere la vita con agio, che sa conversare, ricevere o stare comodamente in famiglia.

Una felicità di vita e d'arte molto diversa dall'introspezione di Rembrandt o dal tormento esistenziale di Caravaggio, che pure aveva conosciuto e amato.
Rubens è sereno. 
Lo dice nelle sue lettere e nei suoi diari. 
La pittura è il modo di comunicare il suo star bene con il mondo e non può smettere di dipingere, non solo opere per commissione-  se ne contano a migliaia-  ma schizzi, disegni, piccole tele.
Trasforma tutto in pittura con entusiasmo, con foga, quasi con frenesia.

Ci sono artisti che sembrano portare su di sé il peso e l'inquietudine di un'epoca e artisti, come Rubens, per cui tutto sembra facile e che sanno trasmetterci, come in questo schizzo, la loro vitalità e il loro sereno rapporto con il mondo. 
E non è poco.




Jean-Baptiste Lully,Ballet de la nuit:


venerdì 24 dicembre 2010

Vigilia




Cosa ci posso fare ? 
Per me Natale non è Natale senza il film di Frank Capra.
Lascio vuota la casa a Bruxelles e arrivo in Italia troppo tardi per fare l'albero o allestire il presepe. Non compro nemmeno la classica "Stella di Natale", tanto so che seccherebbe subito e rimarrebbe là, gialla e senza fiori: un memento della caducità delle cose umane, piuttosto che un lieto simbolo natalizio.


Ma il 24, per la vigilia, so cosa fare per ritrovare il "mio " Natale. 
Preparo DVD, televisore, luci soffuse e inserisco nel lettore "La Vita è meravigliosa".
Ormai è diventato un rito. 
Conosco a memoria la storia dell'onesto George Bailey della moglie Mary, dei bambini e di Clarence Odboody, l'angelo di seconda classe in attesa di promozione.

Evasione, fuga dalla realtà? Forse. 
Ma perché: le renne e il Babbo Natale non lo sono? 
Allora meglio trasferirsi a Bedford Falls e aspettare che la solidarietà natalizia vinca ancora una volta.



Per chi non lo conosce:
http://it.wikipedia.org/wiki/La_vita_%C3%A8_meravigliosa

venerdì 17 dicembre 2010

La "belle dame sans merci": la Madonna di Melun di Jean Fouquet.





Ci sono molti motivi per accompagnare gli amici che mi vengono a trovare in Belgio a visitare Anversa.
Uno è quello di vedere, nel museo, la Madonna di Melun di Jean Fouquet, un quadro straordinario e inquietante, uno dei miei preferiti.


I dati esterni si riassumono in breve: fu eseguito intorno al 1450 e faceva parte di un dittico commissionato da Etienne Chevalier, Tesoriere di Francia, per la chiesa di Melun. L'autore, Jean Fouquet (1420-1481) è un pittore e miniatore francese dei più celebri  (almeno da queste parti), influenzato dalla pittura italiana da Beato Angelico a Piero della Francesca. 


Fin qui è facile. 
Più difficile spiegare quale misteriosa alchimia determini il fascino enigmatico di questo dipinto.
La Madonna è una regina, dalla pelle liscia ed eburnea, avvolta in un manto bianco d'ermellino. 
Mostra, con un'espressione di sdegnosa condiscendenza, dal corpetto semi-slacciato, un seno tondo, marmoreo e tiene sulle ginocchia il Bambino nudo. 
Intorno al trono, decorato di perle e di gemme, un gruppo di angeli rossi e blu.

I colori sono puri, senza sfumature, ridotti all'essenziale.
La scena sembra illuminata dalla luce fredda e perlacea degli inverni del Nord e avvolta in un grande silenzio.
Niente di più lontano dall'iconografia tre-quattrocentesca della Madonna del latte, che rappresentava il rapporto più affettuoso e più intimo che lega una madre a un figlio. 
Qui tutto è raggelato.
La Madonna, elegantissima, con la fronte rasata, secondo la moda dell'aristocrazia del tempo, non si rivolge verso lo spettatore, ma è assorta in un suo segreto pensiero.


Più che alla madre di Dio somiglia a una di quelle algide regine, come la Regina della neve delle favole nordiche o alla "belle dame sans merci" di certi poemi cavallereschi. 
Una tradizione vorrebbe fosse il ritratto di Agnès Sorel, la favorita del re di Francia Carlo VII. 
Probabilmente non è vero, ma è, comunque, la conferma che il dipinto fu creato per un ambiente, chiuso, colto e raffinato come quello della corte francese.

Nessun rapporto d'affetto pare legare la Madonna al Figlio, nessuna empatia la unisce a chi la guarda. 
Gli angeli, simili a sculture e dai colori irreali (il rosso era riservato ai serafini, simboli dell'intelligenza divina, mentre il blu era il colore dei cherubini), la rendono ancora più estranea, quasi un'“aliena”, rispetto alle bonarie e sorridenti Madonne, circondate da “puttini” grassocci,  cui ci ha abituato la tradizione italiana.
Che stia proprio in questa lontananza e nell'ambiguità del soggetto, sospeso tra immagine sacra e favola crudele, la malia sottile di questo dipinto ?




Josquin Desprez, Ave Maria

martedì 14 dicembre 2010

Pascoli


.

Le poesie imparate a memoria  spesso riaffiorano  in maniera inaspettata. 
Ci sono momenti in cui sentiamo di non avere le parole per dire o per comunicare una sensazione e allora, misteriosamente, riemergono, di colpo - chiari alla mente - i versi faticosamente imparati alle elementari, alle medie o al liceo. 
E ci si scopre a sussurrare parole che credevamo dimenticate, rime di poeti che  non leggiamo più, ma che sono legate, dentro di noi, all'emozione di un momento.

Mi è capitato negli ultimi tempi con Pascoli, in una giornata di fine novembre, così silenziosa da percepire "il cader fragile delle foglie" e così tersa e limpida da evocare "gli albicocchi in fiore" della primavera.

E mi è successo, durante un temporale notturno, quando, all'improvviso, un lampo ha illuminato l'edificio di fronte alle mie finestre che a quel bagliore, d'un bianco abbagliante, mi è sembrato estraneo e pauroso. 
E subito mi è ritornata in mente un'immagine, quella della poesia di Pascoli, come se un occhio "largo, esterrefatto" si fosse, davvero, improvvisamente aperto e chiuso, davanti a me, nel buio della notte.

Chi l' avrebbe mai detto? Pascoli!


Gémmea l’aria, il sole così chiaro
Che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore.
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
Di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile.
È l’estate fredda, dei morti.
(Novembre)


E cielo e terra si mostrò qual era :
la terra ansante, livida, in sussulto,
il cielo ingombro, tragico disfatto
bianca, bianca nel tacito tumulto
una casa apparì, sparì d'un tratto
come un occhio che, largo, esterrefatto,
s'aprì e si chiuse nella notte nera.
(Il lampo)



 
G.Pascoli, Il lampo e  Il tuono :

martedì 7 dicembre 2010

Io e il Limbo




Chubby Checker, Limbo rock


Sono nata d'inverno, poco prima della mezzanotte, in un dicembre freddo e piovoso.
Sono nata a rischio, in anticipo di un mese, del tutto inattesa, tanto che non è stato possibile andare alla Maternità e la levatrice è arrivata a casa giusto in tempo, lamentandosi per il freddo e per l'uscita non programmata.
I miei aspettavano un maschio e c'era già pronto il nome.
Sergio, mi sarei dovuta chiamare, come il protagonista di un romanzo rosa, ambientato nella Russia degli zar, tra slitte, camini accesi e passioni focose.
Erano talmente sicuri che non avevano previsto alcun nome femminile.

Mia nonna Maria, subito accorsa, era convinta, nelle sue salde certezze contadine, che i neonati prematuri, quelli a rischio come me, si dovessero battezzare subito o, almeno, che si dovesse immediatamente dar loro un nome.
Diceva che il nome li avrebbe sottratti al Limbo, il luogo destinato nell'aldilà ai bambini innominati. E allora, velocemente, di nomi ne furono trovati due: Grazia e, come secondo  (per precauzione), Teresa, la Santa del giorno.
Ma se così non fosse stato ?


"Grazia, Grazia pensa che ci potevi finire nel Limbo": mi diceva, ogni tanto, mio padre, per scherzo, quando ero piccola.
La frase mi suonava oscura, misteriosa, ma non mi faceva paura, perché il Limbo era entrato, piano piano, a far parte delle fantasie della mia infanzia.


Nessun legame con la religione.
Intanto mi piaceva la parola in se stessa, il suono puro, musicale.
Poi era diventato per me un luogo dell'immaginazione.
Con le mie sorelle, fin da piccole, eravamo abituatea crearci  per gioco degli spazi immaginari: l'Isola del Tesoro oppure i Regni meravigliosi di principi e principesse.

Il Limbo non era propriamente tra questi: era, comunque, per me un territorio a metà tra il vero e il falso, legato al momento che mi piaceva immaginare straordinario in cui, appena nata, ero rimasta impigliata tra due mondi.
Era il momento in cui ero stata magicamente trattenuta nel mondo reale, con la scelta di un nome, del mio.
Rimaneva un luogo fantastico, privilegiato, che un po' mi apparteneva, raccontato dalle parole di mia nonna e da quelle, allora per me più evocative che comprensibili, della poesia.
Erano i versi della Divina Commedia, recitati da mio zio, che mi parlavano del Limbo come di una sede, meravigliosa, abitata da bambini, da poeti e da eroi, i cui nomi cominciavo appena a conoscere: Omero, Ettore.... perfino il Saladino.
Poi per molti anni, per decenni, non ci ho pensato più.

Il nome si legava piuttosto a un'iconografia di dipinti, a un ballo, a un gioco, perfino a un film.
Ma, proprio ieri, ho letto, per caso, in un vecchio articolo di giornale che, seguendo moderni studi di teologia, il Limbo, il "mio" Limbo, quello dei bambini senza nome, era stato da tempo e, a mia insaputa, cancellato, abolito.
Insomma non esisteva, non era mai esistito.
E allora di colpo mi sono ricordata delle mie fantasie infantili e per un momento ho provato una delusione cocente, mi sono sentita sguarnita, privata di una possibilità di sogni.
È stato come quando una compagna di scuola, saputella e un po' crudele, mi aveva detto che non esistevano né Babbo Natale, né la Befana.

Mi sono resa conto d'improvviso che qualcosa mi era stato tolto e che mi sarebbe mancato.
Davvero.





 
Divina Commedia IV Canto dell''Inferno letto da Vittorio Sermonti

giovedì 2 dicembre 2010

Neve: haiku




Ho una grande fortuna con gli amici. 
Ho amici straordinari e tutti mi dannno qualcosa. 
Non solo affetto, lo scambio prezioso di confidenze, il ridere insieme, ma anche letture che non avevo fatto, il piacere di scrivere e di inventare storie, musica che non conoscevo, ricette di cucina, poesie che ignoravo. 
Un'amica mi ha regalato gli haiku.

Dalla terrazza
Haiku è una parola per definire un componimento poetico nato in Giappone, composto da tre versi caratterizzati da cinque, sette e ancora cinque sillabe: 
direbbero i dizionari.

Haiku è una poesia che esprime stati d'animo in maniera fulminante, intensa:  la brevità, la sintesi, l'assenza di nessi, di legami tra i versi lasciano spazio ai propri sentimenti, alle proprie emozioni.

Stamani mi sono svegliata per il silenzio e l'improvviso chiarore dalle finestre che accompagna le nevicate notturne. 
Sono andata a vedere: sì, c'era la neve e tanta. 
La prima sensazione è stata di gioia allo stato puro.
Poi sarebbe venuto il fastidio, la fatica di uscire, il traffico rallentato, i marciapiedi scivolosi, le piante del giardino bruciate dal gelo.

Ma all'inizio ho pensato: qui ci vorrebbe un haiku per fermare questo momento, questo istante di puro piacere.
La mia amica ne avrebbe scritto uno, subito, di getto.
Io li sono andata a cercare:

Ero soltanto
ero.
Cadeva la neve.
(Kubayoshi Issa)

Non c'è nulla.
I campi e i monti
rubati dalla neve
(Joso Naito)

Inverno desolato
nel mondo di un solo colore
il suono del vento
(Chiyo- jo)




sabato 27 novembre 2010

Italia sì, Italia no....



Elio e le storie tese , La terra dei cachi



Come sono complicati i sentimenti che mi legano all'Italia! 
Abito all'estero gran parte dell'anno, la metà della mia famiglia è tedesca, e amo il Belgio, il paese dove vivo. Ho sempre detto di sentirmi più cittadina europea che italiana. 
Tutto vero, ma non é così semplice. 

Ovvio: l'Italia è il paese dove sono nata, dove ho vissuto, dove abitano le mie sorelle, i miei nipoti, i miei parenti, i miei migliori amici, le persone, con cui posso spartire, non solo la lingua, la storia, i ricordi, ma  con cui posso ridere di una battuta, intonare una vecchia canzone, rammentare situazioni, luoghi, persone... 

Eppure la parola “patria” mi lascia indifferente, non mi commuovo all'inno di Mameli e non mi emoziono nel vedere il tricolore. La Nazionale di calcio mi fa arrabbiare e non condivido nemmeno l'idea dell'italiano "simpatico mascalzone" e poi detesto la furbizia come qualità nazionale.  Allo stesso tempo, mi infurio per gli stereotipi e per la visione che si ha dall'estero di un paese ridotto a cartolina, a una brutta cartolina, un'immagine di mafia, di immondizia e spaghetti.

È come se mi sentissi legata all'Italia da un sentimento "antico", primordiale, difficile da definire, da un lungo filo, un elastico, che a volte si può tendere fino all'estremo limite, ma che non si rompe mai. 
Poi c'è la vergogna. 
Sentivo in un'intervista alla radio  che la vergogna è il senso più percettibile e più sicuro dell'appartenenza.
Ci si vergogna per chi si ama, per quelli a cui ci si sente legati, per la comunità, a cui intimamente, si appartiene. 
Per altri si può provare imbarazzo, disagio ma mai vergogna. 
È vero. È così. 
In questo periodo in cui provo, per la situazione italiana, una vergogna acuta e cocente, non mi sono mai sentita di appartenere tanto fortemente a questo paese, così difficile, così irritante, così mio.




Uno stralcio dell'intervista con Carlo Ginzburg :



lunedì 22 novembre 2010

20 ottobre 2010 : blog aperto....e 800 !


  


Non so se esista un'etichetta o un galateo a proposito dei blog.
Non so se sia corretto festeggiare quello che per me è un traguardo.
So che esistono blog letti migliaia e migliaia di volte.
Sicuramente.
Ma oggi, quando ho visto nella bacheca che ho superato 800 visite, da quando, circa un mese fa, il 20 ottobre, ho reso pubblico il mio blog mi sono commossa.
In realtà non so nemmeno cosa voglia dire: 800 persone che hanno letto e condiviso, quello che ho scritto, oppure, al limite, 800 volte che una sola persona ha letto anche un unico post?
Se fosse così, sconosciuto lettore, ti ringrazio. 
Leggere per ottocento volte quello che ho scritto è un esercizio che confina con l'eroismo.
Ma anche se i lettori non fossero  ottocento, poco importa.


Ho cominciato a scrivere per paura, paura della solitudine, del vuoto, paura che tutte le mie sensazioni, i miei pensieri finissero con me.
L'urgenza della scrittura mi si è manifestata pressante e, in qualche modo, irresistibile.
Mi fa un gran piacere che qualcuno, amico o sconosciuto, abbia condiviso per un momento i miei pensieri.
Anche se non fa parte dell'etichetta o di un misterioso e a me ignoto galateo blogghistico, questo traguardo lo voglio davvero festeggiare.
Grazie !

mercoledì 17 novembre 2010

Something



Cosa si fa quando Internet non funziona, si è soli in casa e fuori è una giornata fredda e grigia.
Ovvio: si ascolta una canzone. Si ascolta Something.

- Ma lo sai che è la canzone più incisa dei Beatles dopo Yesterday ?
Si, lo so
-  E che Frank Sinatra l'ha definita la migliore canzone d'amore che abbia cantato ?
Vuoi che non lo sappia ?
- Ma lo sai che è stata composta da George Harrison nel 1969 per l'album "Abbey Road"?
Certo che lo so
- Ma lo sai che è stata incisa per Pattie Boyd, al centro di un ardente triangolo amoroso tra George Harrison e Eric Clapton ?

- Figurati se non lo so!
E ora vuoi farmi ascoltare, per favore.

martedì 16 novembre 2010

Rubinetti




Ormai mi capita sempre più spesso. 
A volte non ci penso per giorni interi e, poi, all'improvviso, ricomincio a parlarne e ricado nell'ossessione: i rubinetti.

Un tempo non lontano, nei bagni, c'erano due onesti rubinetti, piazzati ai lati del lavandino, con sobrie indicazioni per l'acqua calda (in rosso) e fredda (in blu). 
Si aprivano ruotandoli e si miscelava l'acqua. Ora non più.

Si è cominciato con il rubinetto unico– e passi– ma, poi, poco a poco, il modesto accessorio idraulico è diventato campo delle audaci sperimentazioni tecniche e di un design sempre più ardito.

Ormai si può aprire con un pedale, con una cellula, con un pulsante, con un interruttore, a intermittenza....Insomma decifrarne il funzionamento è più difficile che capire il sistema binario.

Nei bagni pubblici il pudore e la vergogna ci impediscono di chiedere informazioni: sarà mai possibile che non si riesca ad aprire nemmeno un rubinetto ? 
La strategia giusta ci sembra quella di osservare, di soppiatto, la persona davanti a noi. 
Ma attenzione ! 
Soprattutto se si allontana con aria saputa e con lieta disinvoltura: è proprio allora che non bisogna fidarsi.
Il più delle volte il rubinetto è rimasto ostinatamente chiuso e le mani, nascoste nelle tasche – c'è da giurarci- sono ancora insaponate. 
La soluzione è quella di uscire, facendo finta di niente e maledicendo silenziosamente, ma con metodo, l'incolpevole accessorio.

Anche la scelta della rubinetteria di casa è diventata una sfida impossibile. 
Si decide di rinnovare il bagno ? 
Ecco subito infiniti cataloghi con centinaia di pagine patinate e illustrate: rubinetti con termostato, senza, con doccetta incorporata, riducibili, smontabili... 

La decisione è dura e gravida di conseguenze.
Provoca laceranti incomprensioni familiari, emicranie notturne e frustrazioni profonde. 
E non è finita: a montarli non sarà più il caro vecchio idraulico con la salopette blu e la camicia a scacchi. No davvero

Arriva il tecnico, con un camice bianco immacolato e un'inquietante valigetta cromata, piena di raffinata strumentazione e, subito, richiede che, durante l'operazione, ci sia un silenzio perfetto; anzi, ci fa capire che il momento è grave e che è meglio uscire dalla stanza e lasciarlo da solo.

Ci richiamerà lui, quando l'acqua sgorgherà, miracolosamente, dallo stupendo quanto incomprensibile oggetto che avrà piazzato e che non riusciremo mai più a far funzionare......



sabato 13 novembre 2010

Itaca



Giornata grigia di pioggia e di vento. 
Cosa c'è di meglio che rileggere Kavafis?




Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell'irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l'anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d'estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia -
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d'ogni sorta; piu' profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca -
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa' che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull'isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos'altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

(C.Kavafis)

http://www.youtube.com/watch?v=EQsy1BIoyrg&feature=related





venerdì 12 novembre 2010

JacquesBrel: la chanson des vieux amants


Ci sono  sempre  dei  versi, nelle canzoni di un cantante che amiamo, che ci rimangono dentro.

Sono tante le parole di Jacques Brel che mi emozionano. Alcune le sento davvero come parte di me.  
Sono nella « Chansons des vieux amants ». 
E non sono quelle dello struggimento, del rimpianto o del ricordo di un amore vissuto a lungo, pur tra bugie, viltà e tradimenti. 

"Il nous fallut bien du talent pour être vieux sans être adultes":   (c'è voluto del talento/ per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti).
queste sono le parole. 

Anch'io mi chiedo come sia riuscita e riesca ancora, a vivere insieme esperienza e immaturità, paura e attesa del futuro, certezza dell'età e sensazione di una giovinezza inesauribile.
Voglia di vivere, di provarmi, di non sentirmi mai arrivata, né nella mia vita di coppia, né nella mia stessa vita.
C'è voluto del talento ? Forse.


Bien sûr nous eûmes des orages
Vingt ans d'amour c'est l'amour folle
Mille fois tu pris ton bagage
Mille fois je pris mon envol
Et chaque meuble se souvient
Dans cette chambre sans berceau
Des éclats des vieilles tempêtes
Plus rien ne ressemblait à rien
Tu avais perdu le goût de l'eau
Et moi celui de la conquête
Mais mon amour
Mon doux mon tendre mon merveilleux amour
De l'aube claire jusqu'à la fin du jour
Je t'aime encore tu sais je t'aime
 Moi je sais tous tes sortilèges
Tu sais tous mes envoûtements
Tu m'as gardé de pièges en pièges
Je t'ai perdue de temps en temps
Bien sûr tu pris quelques amants
Il fallait bien passer le temps
Il faut bien que le corps exulte
Finalement finalement
Il nous fallut bien du talent
Pour être vieux sans être adultes
O mon amour
Mon doux mon tendre mon merveilleux amour
De l'aube claire jusqu'à la fin du jour
Je t'aime encore tu sais je t'aime
Et plus le temps nous fait cortège
Et plus le temps nous fait tourment
Mais n'est-ce pas le pire piège
Que vivre en paix pour des amants
Bien sûr tu pleures un peu moins tôt
Je me déchire un peu plus tard
Nous protégeons moins nos mystères
On laisse moins faire le hasard
On se méfie du fil de l'eau
Mais c'est toujours la tendre guerre
O mon amour...
Mon doux mon tendre mon merveilleux amour
De l'aube claire jusqu'à la fin du jour
Je t'aime encore tu sais je t'aime.


e in italiano Petra Magoni e Ferruccio Spinetti,Musica nuda:



lunedì 8 novembre 2010

Bruxelles


Ogni volta che torno mi stupisco di come può essere affascinate questa città. 
Sì, proprio Bruxelles.
Ancora ieri – e non è la prima volta – sentivo, in aereo, i commenti di due italiani  "Che città grigia! Che città noiosa ! Noi che abitiamo a Roma...e il sole...e i monumenti...e l'arte.. ". 
E basta !

Invece no, Bruxelles è come quelle donne - perchè la penso al femminile – che non sono belle, o meglio, che pensano di non essere belle e che, proprio per questo, rivelano per chi ha l'intelligenza e la pazienza di svelarle uno charme sottile, raffinato, meno esplicito, ma infinitamente più ammaliante.
Il pudore, la ritrosia e il bisogno di farsi scoprire poco a poco, la rendono più affascinate delle città dalla bellezza fragorosa, quelle che subito si offrono sfrontatamente all'ammirazione, tanto sono sicure di sé.



Bisogna passeggiare, lasciarsi andare, lasciarsi prendere dolcemente per trovarne i tanti incanti: non solo la Grand Place ma i quartieri "art nouveau", i parchi, le piccole case di mattoni rossi, i bistrot, i tavolini all'aperto, le piazze con le panchine, i mercatini, le "brocantes", i giardini nascosti dei palazzi del centro ...
E l'atmosfera, la convivialità, la birra ....
Altro che la città stupida e torpida del giudizio, o meglio, del pregiudizio sommario di Charles Baudelaire, "esiliato" a Bruxelles, che ha prodotto tutte le barzellette francesi sui Belgi, le stesse che noi riferiamo ai carabinieri!

Bisogna capirne il sottile surrealismo della vita quotidiana.
Quale altra città al mondo sceglierebbe come simbolo un bambino che fa pipi (e in più abbigliato con costumini sontuosamente ridicoli) o un atomo ingrandito miliardi di volte? 
È come Magritte che si divertiva alle spalle degli altri a celarsi sotto l'aspetto di un borghese, grigio e conformista. E occorre indagare davvero poco per trovare sotto la superficie una città spiritosa, viva, scintillante, magnifica.

Peccato per chi non la scopre, peccato per chi non la sa amare.
E allora, parafrasando Marcel Proust: "Lasciamo le città belle agli uomini senza fantasia!" 
A me piace immaginare, a me piace sognare, a me piace Bruxelles.



Jacques Brel, Bruxelles :

mercoledì 3 novembre 2010

I vecchi



Quando lessi questa poesia di Leonardo Sinisgalli ero alle medie e la vecchiaia era lontana, ma, in qualche modo, più presente di adesso. 
Passavo, per andare a scuola, dalla piazza del paese, dove i vecchi stavano seduti al sole sulle panchine. 
Mi ricordo che mi commossi, pensando a mio nonno Pietro, un vecchio contadino taciturno, che si aggirava per casa e sul terrazzo, cercando di coltivare  pomodori come quelli della campagna. 

Oggi nemmeno i vecchi ci sono più. 
Li chiamano "anziani", come se vecchi fosse una brutta parola.
Le donne, ai tavolini dei bar o dei centri sociali, sfoggiano capelli dai colori improbabili e gli uomini se ne stanno attaccati al telefonino, in attesa di una parola che, forse, li consolerà.


Pianto antico


I vecchi hanno il pianto facile.
In pieno meriggio
in un nascondiglio della casa vuota
scoppiano in lacrime seduti.
Li coglie di sorpresa
una disperazione infinita.
Portano alle labbra uno spicchio
secco di pera, la polpa
di un fico cotto sulle tegole.
Anche un sorso d'acqua
può spegnere una crisi
e la visita di una lumachina.




E un ricordo per mio nonno Pietro :


L'uomo che torna solo


L’uomo che torna solo
A tarda sera dalla vigna
Scuote le rape nella vasca
Sbuca dal viottolo con la paglia
Macchiata di verderame.
L’uomo che porta così fresco
Terriccio sulle scarpe, odore
Di fresca sera nei vestiti
Si ferma a una fonte, parla
Con un ortolano che sradica i finocchi.
È un uomo, un piccolo uomo
Ch’io guardo di lontano.
È un punto vivo all’orizzonte.
Forse la sua pupilla
Si accende questa sera
Accanto alla peschiera
Dove si asciuga la fronte







Leonardo Sinisgalli, un grande poeta :
http://www.poesieracconti.it/poesie-autore/leonardo-sinisgalli